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Rebecca Clarke: una compositrice che esce dall’ombra

Anche quest’anno il National Museum of Women in the Arts di Washington D.C. ha lanciato la sfida #5WomenArtists per aumentare la consapevolezza sulla disparità di genere nelle arti, specialmente quelle accolte nei musei o nelle gallerie. La provocazione di nominare almeno cinque artiste donne, infatti, è rivolta forse più alle istituzioni che si occupano di arte che al pubblico (che ha aiutato la campagna a diventare virale), perché si rendano conto di quanto è necessario ancora lavorare perché le artiste donne e i loro lavori siano condivisi, supportati e promossi.

Ora facciamo un gioco ancora più difficile: riusciamo a nominare almeno cinque compositrici? Se con le artiste me la posso cavare, qui sono in alto mare.

Per esempio, perché il nome di Rebecca Clarke ci è praticamente sconosciuto e la sua riscoperta procede a rilento? Dalla sua, Clarke ha collezionato quasi dei record: è stata una delle prime donne a specializzarsi in composizione nel Regno Unito e a suonare professionalmente in un’orchestra; è stata una grande compositrice e violista, spesso in viaggio per tour internazionali, specialmente negli Stati Uniti. Perché, quindi, è così difficile sapere qualcosa di lei?

Illustrazione di Arianna Floris

Sicuramente, il fatto di essere nata nei nebulosi anni a cavallo tra Otto e Novecento ha rallentato il suo successo: la società del tempo faticava ad accettare l’affermazione di una donna in un tipo di musica che non fosse quella suonata tra le mura domestiche per il piacere degli invitati, ma anche la stessa Clarke, per carattere, tendeva ad autosabotare il riconoscimento che le spettava.

Ancora oggi, inoltre molta della sua produzione non è stata pubblicata o appartiene agli eredi, e la maggior parte delle informazioni che abbiamo di lei provengono dai suoi diari. Da quelle pagine, però, sappiamo con certezza che anche nei lunghi periodi che passò senza comporre quasi nulla, il suo desiderio di creare musica non era scomparso: si muoveva sotto la superficie, inquieto e potente.

Gli inizi e la Queen’s Hall Orchestra

A introdurla alla musica fu il padre, uomo americano rigido e iroso, che impose ai figli (Rebecca era la maggiore di quattro) di accompagnarlo durante le sue esecuzioni al violoncello – nel quale era piuttosto mediocre, per usare le parole della stessa Clarke. Fu sempre lui a parlare della figlia a Charles Villiers Stanford, compositore e direttore d’orchestra, che accettò il suo ingresso al Royal College e le fece da mentore, indirizzandola allo studio della viola perché potesse sempre ascoltare l’esecuzione della musica dal centro dell’orchestra.

Era molto raro per le donne specializzarsi, ma Rebecca Clarke non si limitò a diventare compositrice: nel 1912, a ventisei anni, venne scelta da Sir Henry J. Wood assieme ad altri sei musicisti per entrare a far parte della Queen’s Hall Orchestra di Londra, diventando così una delle prime donne in assoluto a suonare professionalmente in un’orchestra.

In un certo senso, possiamo dire che fu sempre il padre a spingerla perché si guadagnasse da vivere suonando: aveva discusso con lui dopo aver scoperto che aveva una relazione extraconiugale, e per tutta risposta era stata cacciata di casa; trovandosi da sola e potendo contare solo su ciò che sapeva fare, Clarke decise di dedicarsi completamente alla musica, raggiungendo i fratelli negli Stati Uniti.

Viola Sonata

Nonostante i successi che stava ottenendo – come, per esempio, suonare in due diversi quartetti femminili e partire per un tour internazionale – la critica accademica faceva ancora fatica ad accettarla al pari degli altri compositori.

Quando nel 1919 presentò Viola Sonata al Coolidge Festival, dopo la prima al Berkshire Music Festival, nonostante la qualità del lavoro non vinse il primo premio perché girava voce non si trattasse di una sua composizione. Altre fonti affermano che, più probabilmente, la mecenate Elisabeth Coolidge preferì assegnare la vittoria a Ernest Bloch (da non confondere con il filosofo Ernst Bloch) perché era suo amico ed era uomo, rispetto a Rebecca Clarke che pure ammirava ma la cui scelta sarebbe stata giudicata “problematica”.

Eppure Viola Sonata, che alla fine fu pubblicata nel 1921, è considerata una delle vette della Rebecca Clarke compositrice.

La modestia e l’insicurezza

In aggiunta a queste difficoltà, la musicologa Liane Curtis ha messo in luce come il carattere di Rebecca Clarke abbia inciso molto sul suo altalenante successo: nonostante rivendicasse il diritto di mostrare fino in fondo le proprie capacità di donna compositrice, faticava a credere in se stessa e nei propri mezzi. Era figlia del suo tempo, cresciuta tra le restrizioni vittoriane e gli ornamenti edwardiani; simpatizzava con lo spirito delle suffragette che in quegli anni infiammavano i dibattiti politici, ma non scelse mai la strada della militanza: Clarke voleva sentirsi parte della società dei suoi contemporanei, anche se questo la portava ad adattarsi a “ad un’ideologia che applicava rigidi stereotipi all’identità della donna”.

Era ben conscia di essere un caso eccezionale, come apprendiamo sfogliando le pagine del suo diario, in cui però si lascia andare anche ai dubbi: a proposito del fatto di essere stata l’unica studentessa accettata da Charles Villiers Stanford, scrive che “era fonte di grande orgoglio per me, anche se sapevo benissimo che non l’avrei mai veramente meritato”.

Il desiderio di comporre veniva spesso represso da dubbi di questo tipo, ed era una sua caratteristica la tendenza a minimizzare il proprio lavoro invece di promuoverlo, arrivando (come ha rivelato in un’intervista radiofonica del 1976 col giornalista Robert Sherman) a firmare un brano con lo pseudonimo di Anthony Trent, perché temeva che la ripetizione del proprio nome sulla locandina del recital potesse risultare sfacciato.

I always feel that each thing I do is going to be the last thing I’m capable of. It always seem sort of a little bit accidental.

Sento che ogni cosa che faccio sarà l’ultima cosa di cui sono capace. Mi sembra sempre accadere un po’ per caso.

Al momento dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Clarke si trovava negli Stati Uniti, dove fu costretta a restare (e dove rimarrà fino alla morte) perché il rimpatrio le fu vietato. In quegli anni si legò a James Friskin, un pianista che aveva già conosciuto durante il tour negli anni Venti. L’unica altra relazione amorosa di cui abbiamo notizia fu con il baritono John Goss, di otto anni più giovane e sposato, a cui aveva dedicato The Tiger (1933), un’opera oscura e inquieta, “poco femminile”, ispirata a William Blake.

In entrambi i casi, però, l’amore significò un rallentamento nella produzione musicale di Clarke. Nel 1942 accettò un lavoro come governante e smise di comporre; i suoi diari mostrano la cocente delusione di non poter provvedere a se stessa, per la prima volta nella sua vita, con la musica. Si limiterà ogni tanto a dare lezioni private di viola, violino, teoria e composizione.

Nel 1942, la sua Prelude, allegro and pastorale venne scelta dall’International Society for Contemporary Music per un meeting che si sarebbe tenuto in California: tra le trentacinque opere scelte, di cui solo tre inglesi, era l’unico lavoro composto da una donna. Clarke, lusingata della scelta, ad ogni modo non pubblicò mai il pezzo.

La somma di tutte queste difficoltà ha sicuramente rallentato la conoscenza e lo studio dell’opera di Rebecca Clarke, per sua natura schiva di fronte ai riflettori, che pure nemmeno per un attimo rifiutò di essere una donna e una musicista allo stesso tempo. Quello che più colpisce è la lucidità nel riconoscere tutti i limiti che incontrava e si autoimponeva, cosciente di ciò che si aspettava da lei e del ruolo che la musica aveva (e doveva tenere) nella sua vita.

Nell’intervista del 1976 le fu chiesto perché non continuò a comporre come aveva fatto nei primi anni della sua carriera, e la risposta mette in luce la totale dedizione che avrebbe voluto riservare alla composizione e alla viola:

Non puoi farlo [comporre] – almeno, io non posso e forse è in questo che una donna è diversa – se non è la prima cosa a cui pensi tutte le mattine quando ti alzi e l’ultima prima di andare a dormire. Io ci penso continuamente. Ma se lasci che subentrino altri pensieri, sei responsabile del fatto di non potertici più dedicare. La mia esperienza è stata questa.


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  1. D.

    7 Aprile

    Un commento leggermente pedante: il National Museum of Women in the Arts si trova a Washington e non a New York. Giusto perché magari ci sono altri che come me hanno in programma di andare a New York e non vedevano l’ora di visitare il museo dopo aver letto quest’articolo. Detto questo, penso che a questo punto farò una deviazione.

    Keep up the good work!

    D.

  2. SoftRevolutionZine

    7 Aprile

    Ops! Correggiamo subito, grazie D.

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