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“She’s Beautiful When She’s Angry” e la seconda vita del movimento femminista

L’impressione generale è un po’ questa: che risolta la questione del voto con le suffragette, la storia femminile abbia raggiunto il lieto fine cui anelava. Come oppio, il boom economico post-bellico ha appiattito il dibattito sociopolitico nei Paesi occidentali e l’arrivo degli elettrodomestici è stato celebrato come il momento di maggior emancipazione delle donne, l’illusione della possibilità di gestire al meglio il proprio tempo.

La memoria collettiva ricorda questo come il momento in cui il genere femminile ha iniziato ad essere felice di occuparsi del focolare. La realtà è però ben diversa: negli anni Sessanta la disparità tra sessi aveva raggiunto un’acredine troppo sgradevole per continuare ad essere ignorata su grande scala. Differenze di salario, servizio medico di pessima qualità e per nulla illuminato sulla salute femminile, libertà di movimento e autonomia di pensiero impossibili da immaginare, perenne delega all’uomo di casa per questioni riguardanti la propria persona (dall’istruzione, al conto in banca passando per il controllo del proprio corpo). In questo quadro, che cozza con l’idea romantica che ci è stata trasmessa del ventennio Cinquanta-Sessanta, inizia a scriversi il secondo capitolo di storia femminista.

Il documentario She’s Beautiful When She’s Angry della regista Mary Dore, uscito nel 2014, illustra le dinamiche che hanno caratterizzato la fase del movimento femminista che va dal 1966 al 1971. Il campo di studio sono gli Stati Uniti, dove, come mostra Dore, i risentimenti sono iniziati abbastanza trasversalmente in diversi gruppi sociali, dalle Università alle casalinghe, all’esercito di impiegate presso grandi aziende e studi guidati da uomini. La regista ha intervistato le attiviste dell’epoca, che hanno potuto così raccontare in prima persona le esperienze personali, causa del loro avvicinarsi al femminismo.

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I numerosi temi di battaglia vengono esposti nel corso del documentario con un intreccio narrativo che fa capire la tortuosità della materia trattata, facendo luce sulla lenta presa di coscienza di fronte ad un meccanismo troppo complesso ed insidioso per essere combattuto su un solo fronte.

Cronologicamente, è doveroso menzionare per prima la questione della salute femminile, una battaglia nata sì con il diritto all’aborto (il documentario racconta di quanto il movimento sia stato d’aiuto alle donne che non volevano portare avanti la gravidanza, offrendo assistenza medica e supporto psicologico), ma che è sfociata nel reclamare il controllo della propria sessualità, prima con l’arrivo della pillola e poi con la voglia di informarsi sulla propria anatomia.

Il film riserva anche spazio a quelle approdate al femminismo non da studenti, ma da giovanissime madri di famiglia che cercavano di svincolarsi da situazioni opprimenti. All’epoca già esisteva un dibattito per non rendere il femminismo un’esclusiva delle donne cisgender bianche. Diverse attiviste afroamericane hanno ampliato quella che all’inizio era una prospettiva troppo miope: Linda Burnham ha dovuto mostrare alle altre attiviste quanto fosse diverso il punto di partenza delle donne di colore, che dovevano scontrarsi non solo con mere questioni di genere ma anche con il razzismo; Denise Oliver-Velez all’interno delle Pantere Nere aveva respinto le imposizioni di quegli uomini che volevano “più figli per la rivoluzione”.

E poi c’è la prospettiva delle donne gay. Rita Mae Brown, giovane attivista del gruppo NOW e Furies, racconta ad esempio di quanto sia stato difficile all’inizio farsi strada in un gruppo che stava iniziando a trattare le lesbiche nello stesso modo in cui gli uomini trattavano le donne.

She’s Beautiful When She’s Angry Trailer from nancy kennedy on Vimeo.

 

Le biografie delle persone intervistate sono piccole perle e non meritano di essere riassunte sommariamente. Rimando quindi a questa pagina del sito ufficiale del film, dove è possibile vedere non soltanto i volti delle protagoniste, ma anche conoscere le loro vite.

Di sicuro, la cosa più degna di nota di tutto il film è il titolo. Non per sminuire il resto, ma il titolo è riuscito ad evidenziare un aspetto che rischiava di passare in secondo piano se non così perfettamente esposto. Infatti, il documentario ha voluto insistere proprio su queste donne che hanno trasformato la loro rabbia in qualcosa di estremamente creativo. Quanto è bello poter finalmente legittimare questo sentimento, dopo millenni in cui alle donne è stato insegnato che le emozioni vanno smussate e contenute?

Le attiviste oggi

Le attiviste, oggi

Il film non sembra essere un documento nostalgico su un passato fiorito, piuttosto pare voler rendere omaggio alle protagoniste, fornendo a chi guarda i nomi di chi si deve ringraziare. Un grazie parziale, si sa, perché il resto lo dobbiamo fare noi, ampliando i contenuti del femminismo 3.0. E poi si sa, come dice Lisa Simpson, il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza.


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