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Privacy, gender e tecnologia: un’intervista con Maya Indira Ganesh

Lo scorso giugno sono andata al DIG Festival, un festival di giornalismo investigativo che si tiene a Riccione, per seguire alcuni eventi e workshop su tecnologia, privacy e giornalismo. È lì che ho incontrato due ragazze che lavorano a Tactical Tech (per esteso Tactical Technology Collective), un gruppo con base a Berlino che aiuta gli attivisti e i giornalisti ad utilizzare la tecnologia nel campo dei diritti umani.

Era la prima volta che vedevo delle ragazze tenere un workshop di tecnologia, così ho chiesto loro di raccontarmi qualcosa di più sui loro progetti. Mi hanno messo in contatto con la Direttrice della Ricerca Applicata di Tactical Tech Maya Indira Ganesh.

Ganesh lavora nel campo della tecnologia da circa dodici anni, pur avendo iniziato la sua carriera nei media creativi. Nel suo curriculum c’è anche molto lavoro come ricercatrice a attivista per i diritti delle donne in India. È proprio facendo attivismo su internet che si è avvicinata alla tecnologia e alle possibilità che offre. Impegnata in diversi ambiti, al momento sta lavorando a un PhD sull’etica dell’intelligenza artificiale, ma anche ad un magazine online che mostrerà ricerche, dibattiti e analisi nel settore della tecnologia e dei diritti umani.

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Decrypting Encryption Episodio 1: Privacy Please!

 

Stai lavorando ad un progetto che riguarda la relazione fra privacy e genere. Qual è il suo obiettivo?

Un anno e mezzo fa abbiamo iniziato questo progetto chiamato Gender Tech Institute, GTI. Era un modo per unire donne e attivist* LGBT che lavorano in diverse parti del mondo. Vedevamo che le donne si trovavano di fronte a un certo numero di minacce e molestie sia online che “offline”, e la stessa cosa valeva per molte persone LGBT.

Il nostro obiettivo era quello di contattare donne che conoscessero già abbastanza bene la questione della privacy e della sicurezza online, difendere il loro lavoro in giro per il mondo e formare un gruppo di persone che provasse a pensare alla privacy da una prospettiva di genere. Quali sono i bisogni specifici delle donne che vengono molestate online e cosa possiamo fare perché queste acquistino sicurezza di sé nell’uso della tecnologia?

Perciò noi ci occupiamo di due cose in particolare: primo, cerchiamo di fare sì che le donne si affidino di più alla sicurezza digitale e si sentano a proprio agio nell’insegnarla a loro volta altre persone; secondo, forniamo loro la possibilità di parlare di questioni relative alla privacy da un punto di vista dei diritti delle donne.

Una delle cose che abbiamo cercato di fare con il Gender Tech Institute è guidare reti di donne e persone che lottano per diritti delle donne in giro per il mondo. Attualmente abbiamo appena finito il secondo GTI in Ecuador: lì l’attenzione era in particolare sulle attiviste che lottano per i diritti riproduttivi.

I diritti sessuali e riproduttivi sono un argomento spinoso in America Latina, perché le donne non hanno accesso ai contraccettivi, non possono abortire e c’è tantissima violenza rivolta verso quelle che, sia online che offline, si battono per questi diritti.

Non abbiamo ancora molto materiale online, ma ci stiamo organizzando: abbiamo fatto due GTI, e delle ricerche sul loro impatto, su cosa è successo alle persone che hanno partecipato al primo, e come sappiamo che questo tipo di eventi funziona…Quindi ora abbiamo i risultati di queste ricerche. Il passo successivo è produrre sempre più nuovo materiale ed esercizi basati su questi workshop, in caso altre persone vogliano organizzarli in altri posti.

 

Che genere di violenza devono affrontare le donne e i membri della comunità LGBT sul web?

Il principio che vale è che la discriminazione, marginalizzazione o violenza che le persone sperimentano nella vita reale viene rispecchiata online. Quindi il perché della sua esistenza può essere rintracciato nel suo riflettere le disuguaglianze che ci sono già all’interno della società.

Tuttavia, spesso le situazioni peggiorano su internet: anche nella vita reale le persone si arrabbiano le une con le altre, ma raramente capiterà che dicano cose come “Non mi piace per niente quello che stai dicendo, quindi verrò a casa tua, stuprerò i tuoi figli, li ucciderò e li butterò nell’immondizia”.

Alcune donne sono costrette a sopportare delle cose molto pesanti online, e penso dipenda anche da chi sei e cosa fai per lavoro. Se sei una giornalista o un’attivista importante e stai esprimendo la tua opinione online, le persone che non sono d’accordo con te possono diventare molto violente a livello verbale. Al riguardo c’è un famoso articolo del Guardian che gira da un po’.

Nell’articolo hanno analizzato i 70 milioni di commenti che il Guardian ha ricevuto nel corso degli ultimi anni e ne è uscito fuori che i giornalisti donne, LGBT e afroamericani sono quelli che a cui è rivolta la maggioranza della violenza da parte dei commentatori.

Ma ci sono anche altri tipi di violenza, per esempio i casi di persone all’interno di una relazione che soffrono abusi da parte dei propri partner o le proprie famiglie.

Molti sono i modi in cui ciò può succedere: la famiglia può, ad esempio, dire loro: “Non mi piace che tu vada in questi posti o che incontri queste persone” e provano a controllare i loro movimenti tramite internet. Oppure ci sono cose come il “revenge porn”, ovvero i video di sesso pubblicati per vendetta, o anche il cosiddetto “doxing”.

Il termine doxing si riferisce a quando si prova a scoprire dettagli sulla vita privata di una certa persona in base ai suoi profili sui social media, guardando le sue foto, le sue cerchie di amici, o entrando illegalmente nel suo account. In pratica raccolgono informazioni su una donna e poi le pubblicano online in modo che altre persone possano andare a molestarla sotto casa sua.

Ed è una cosa terrificante, perché quando sai che qualcuno ha tutti i tuoi dati privati e potrebbe venire sotto casa tua, anche se non lo fanno, comunque minacciano di farlo e potrebbero farlo: è orribile. Per questo motivo noi insegniamo alle donne a proteggersi e a cancellare le proprie tracce online in modo che altre persone non possano venire in possesso di informazioni riservate su di loro.

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Illustrazione tratta dal 13° AWID International Forum (Brasile) cui Tactical Tech ha partecipato lo scorso settembre per parlare di online harassment e cyberbullismo

 

Uno dei problemi più gravi è che le leggi non riescono a tenere il passo con lo sviluppo tecnologico. Magari possiamo fidarci di aziende individuali, ma a volte su social network come Facebook per esempio, ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non va, e quando proviamo a segnalarlo ci viene risposto che non viola gli standard della comunità. In questi casi, cosa possiamo fare?

È una situazione molto complicata, perché nessuna legge in nessun paese in questo momento può davvero offrire protezione o prevenire determinate cose. Di solito le opzioni sono due: o le leggi relative alle molestie “offline” e allo stalking, vengono estese e applicate anche ai casi online, oppure ci sono leggi talmente vaghe e comprensive che iniziano a limitare la libertà d’espressione online. Alcuni obbiettano: “Beh allora non andate su internet”, ma tutti hanno il diritto di poter andare in rete e parlare di quello che vogliono, quindi al momento non c’è nessuna legge che possa risolvere questo tipo di problemi.

In alcuni posti la situazione legale è davvero strana: per esempio, in America, non c’è legge che protegga le donne che sono vittime di abuso verbale online, ma c’è n’è una che criminalizza i minori che si inviano messaggi dai contenuti sessuali fra di loro, questo perché è considerata pornografia infantile. Sfortunatamente, la legge ha un rapporto molto complicato con la sessualità e la tecnologia, ed è abbastanza difficile trovare una soluzione da questo punto di vista.

Esiste un’iniziativa che prevede che le organizzazioni provino a contattare direttamente le aziende tecnologiche, mostrando loro i risultati delle ricerche sulle percentuali di molestie che avvengono sulla loro piattaforma. Da un lato, queste piattaforme online non hanno regole su cosa si può dire e cosa no, dall’altro, hanno un sacco di standard comunitari e linee guida su come ciò che a loro non va a genio dovrebbe essere regolato, come per esempio l’allattamento al seno. Non so, io personalmente penso che aspettare la legge sia inutile. Parallelamente, dobbiamo far sì che si parli di più della questione. Penso che sia importante che le persone riconoscano in sempre più casi che c’è un problema di fondo.

 

Spesso succede che quando si inizia a considerare seriamente la questione della privacy, specialmente per persone che non si occupano di tecnologia, può sembrare una cosa molto complessa, ed è molto facile uscirne scoraggiati. Hai qualche consiglio al riguardo?

Sì, ci sono un paio di cose che posso dirvi. Innanzitutto, la prima cosa da fare è un’analisi complessiva di chi sei e cosa stai facendo online. Se sei una giornalista che lavora su delle questioni molto delicate e il tuo obiettivo è smascherare la corruzione e informare sulla violenza, devi stare attenta a che tipo di materiali e contenuti pubblichi. Ma se sei una persona qualsiasi sui social media, allora la minaccia potrebbe venire da qualche parente o ex-fidanzato, e in questo caso è una situazione molto diversa.

Quello che consigliamo a tutti, di solito, è un approccio alla privacy e alla sicurezza che tenga conto del contesto in cui vivono. Un grosso problema è che usiamo internet sia per ragioni private che per ragioni di lavoro, ma finiamo per utilizzare gli stessi telefoni, gli stessi computer e gli stessi browser. Questo ci rende molto vulnerabili, quindi cambiare dispositivi a seconda di quello che dobbiamo farci sarebbe un’ottima precauzione.

Poi dovremmo evitare di stare tutto il tempo a pubblicizzare qualunque cosa: pensate al tipo di informazioni che create, ma anche allo scambio di informazioni a catena che mettete in moto.

Un’altra cosa importante da ricordare è che qualunque cosa che facciamo online lascia tracce, quelle che noi chiamiamo “data shadows”: certo, non stiamo dando soldi a corporazioni come Twitter o Facebook, ma gli stiamo dando dati personali.

Ci sono anche un sacco di strumenti alternativi che si possono usare, oppure ci si può limitare a stare attenti a ciò che si fa e si condivide su certe piattaforme. Se andate sul sito myshadow.org/resources, ci sono moltissimi strumenti che si possono usare per controllare quanto siano sicuri i propri dati, ma ci sono anche un sacco di altre applicazioni fra cui scegliere: per esempio, programmi di sicurezza privata e di crittografia, sia per il lavoro che per la vita di tutti i giorni.

Sarebbe una buona idea pensare in modo creativo alle strategie a disposizione per proteggersi, ma soprattutto fare sempre domande sui nostri dati e dove questi vanno a finire, e cercare la trasparenza. Cosa fa, di fatto, questa azienda? Dove vanno i nostri dati? Chi raccoglie i profitti? È importante continuare a fare domande.

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“Me and My Shadow”

E che mi dici delle persone che sono a conoscenza della questione ma non sono interessate alla privacy? Mettono in pericolo qualcun altro? Pensi che sia una scelta personale o dovremmo stare tutti più attenti?

Bella domanda. Si chiama il paradosso della privacy, il fatto che molte persone sanno quali sono i rischi ma per diverse ragioni non vogliono cambiare e adottare queste nuove abitudini di sicurezza. Penso che oggi, in Europa, la conversazione su problemi come la privacy dei dati sia molto più ampia rispetto a prima, e c’è un livello medio di coscienza al riguardo, ma è difficile per la gente fare il passo successivo. E qui entriamo in gioco noi, per dimostrare che ci sono modi semplici di approcciarsi alla tecnologia e fare scelte alternative.

Poi se non lo fanno, non lo fanno. Non possiamo obbligare nessuno. Penso che lo trovino molto complicato e per questo noi ci impegniamo a trovare soluzioni creative per farli interagire con la questione.

 

Avete in programma un GIT in Italia in futuro?

Non abbiamo ancora piani specifici per l’Italia, ma il materiale è sempre disponibile ad essere tradotto. Ci sono anche progetti come Security in a box, che esistono già in diverse lingue. Sono più che felice di condividere i nostri materiali, e chiunque può creare una versione locale del nostro progetto su tecnologia e genere. Al momento ci sono diverse traduzioni in corso: il programma e i manuali sono disponibili in spagnolo e altre lingue, e questo grazie al lavoro di volontari.

Per chi volesse contribuire, basta contattarci attraverso il nostro sito e vi faremo arrivare il materiale. In ogni caso, quando organizziamo eventi in posti specifici, li pubblicizziamo sempre, quindi basta seguire la nostra newsletter. Annunciamo sempre quello che facciamo e dove andiamo.


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