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ANTI è l’atto di ribellione di Rihanna

ANTI è l’atto di ribellione di Rihanna

Lo scorso ottobre, Miranda July ha intervistato Rihanna per T Magazine e ne è venuto fuori un capolavoro. Tra le riflessioni che le venivano in mente mentre si innamorava pazzamente di RiRi, Miranda ha scritto questo: “Non credete alle fotografie – tra una foto a bordo piscina e l’altra c’è una foto non scattata in cui lei sta semplicemente lavorando”. Questo passaggio mi ha fatto pensare molto. A Instagram, ai social media, a quello che percepiamo come caratterizzante e importante di una persona o di un’artista. A quanto le popstar siano analizzate per le foto che pubblicano, gli outfit che indossano, le frasi strambe che dicono nelle interviste, le relazioni che hanno, mentre la musica rimane solo uno sfondo sbiadito.

Quando i tempi morti mi fanno troppa paura e non vado molto d’accordo col silenzio, apro Instagram. Immergermi in mondi altrui, con moderazione, è un modo per ricordarmi che non sono sola, che c’è un mondo intero là fuori che ha gusti simili ai miei, sogni simili ai miei, camere bellissime, in cui posso entrare senza muovermi dalla mia.

A volte mi capita di incappare in foto più dissonanti, come quelle di Kim Kardashian o di Rihanna. Sono foto che ritraggono un’abbondanza sfacciata e orgogliosa, una dimensione parallela con cui non entrerò mai in contatto. Mi fanno sorridere e pensare a quanto impegno ci voglia per costruire la propria immagine pubblica tagliando fuori tutto ciò che è modesto, noioso, ripetitivo. Il lavoro, la routine, i tempi morti in cui probabilmente a loro volta guarderanno sui social le vite degli altri. O faranno ricerche buffe su Google.

Instagram, così come i red carpet, i magazine, Twitter, le spiagge, sono i luoghi non musicali dove Rihanna ha consolidato la sua fama, come spiega molto bene Vulture. Ma non bastano milioni di follower a giustificare quel vuoto lasciato da recensioni e articoli che, per commentare l’ultimo album di RiRi o il suo percorso artistico-musicale, tirano in ballo le sue hit vecchie anni, i suoi capelli e Chris Brown. No, Rihanna non è i suoi lividi e le sue ferite. Se abbia passato gli ultimi sette anni a fare di tutto per farci dimenticare il suo volto tumefatto o meno, non ci è dato saperlo e la sua influenza a livello artistico e musicale è troppo grande per essere commentata sempre col filtro dell’“Ok, bella la musica, ma te la ricordi quella volta che…?”.

Rihanna Anti

ANTI, secondo il Washington Post, non è un granché perché non ci sono i tormentoni pop che “l’hanno resa chi è oggi”. Bustle distrugge l’album e ne fa una classifica in gif che va dalla canzone “meno peggio” a quella più brutta di tutte. Sul Corriere, in un articolo dal titolo Rihanna e la confusione di un disco senza tormentoni, si legge “In queste 13 tracce sembra di essere a fianco di un pilota che oltre a non conoscere la strada non sappia nemmeno la destinazione finale”. Ho citato tre recensioni, ma la lista di recensori parzialmente o totalmente delusi da ANTI è molto lunga.

Qual è l’elemento che accomuna i delusi? Sono tutti convinti che ANTI non rappresenti la “vera” Rihanna, che la mancanza di singoli sia una perdita e non un arricchimento per un’artista che ha firmato il suo primo contratto discografico a 16 anni, che ha sfornato sette album in otto anni e che, all’età di 27 anni, vanta riconoscimenti e record di ogni tipo (tra gli altri, è la prima artista in assoluto ad aver superato la soglia di 100 milioni di copie con i suoi singoli ed è la prima donna nera mai apparsa in una campagna di Dior).

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ANTI è indubbiamente un disco diverso dai precedenti. Un disco che trova la sua precisa identità nel non avere un’identità o un genere ben definiti e nel compiersi di un arco narrativo e stilistico molto ampio. L’album parte da Consideration al fianco di Sza, che oltre al ritmo ha memorabili frasi come “Let me cover yo shit with glitter / I could make it gold”, passa dai richiami reggae di Work con l’inseparabile Drake e finisce con una tripletta di canzoni lente e romantiche come Higher, Close to You, ma soprattutto Love on The Brain, dove la voce di Rihanna in stile doo-wop vi può far venire da piangere, ridere e urlare, il tutto nel giro di in una manciata di minuti. L’album è diventato disco di platino in sole 15 ore, grazie a vendite e download su Tidal e iTunes.

Sound a parte, le emozioni sono dappertutto, in ogni testo, in ogni passaggio, in ogni canzone. Rihanna parla di se stessa, di sesso, del suo corpo, di delusioni e solitudine, di droga, di quei moti interiori che ti investono quando vorresti rivedere una persona ma sai che sarebbe sbagliato farlo.

L’uscita di Bitch Better Have My Money (che non è nell’album, così come non ci sono FourFiveSeconds e American Oxygen) nel 2015 aveva consolidato l’immagine di Good Girl Gone Bad attorno a cui è girata la costruzione di Rihanna come quintessenza della “badass woman”, una donna indipendente, forte, che non ha bisogno di nessuno. La trappola della “badassery” è che, come qualunque altra etichetta arbitraria, è molto appiccicosa e difficile da staccare. In modo molto simile al concetto tradizionale di mascolinità, è un modello limitato che non lascia spazio all’espressione delle proprie emozioni e che identifica come positivi tutti quei tratti per cui il personaggio è forte in modo sovraumano, invincibile, mai fragile, almeno pubblicamente.

RiRi ha avuto per la prima volta la libertà di muoversi nel suo album alla scoperta delle proprie emozioni, creando un’esperienza intima, solitaria, non finalizzata al mero raggiungimento della vetta della classifica. Ha fatto un album perfetto da ascoltare in cuffia sdraiati sul proprio letto. Le persone che volevano una colonna sonora per le proprie sbronze danzerecce non avranno pane per i loro denti, ma piuttosto un album perfetto per l’hangover un po’ triste e solitario della domenica.

La forza delle nuove canzoni di Rihanna è la stessa di tante donne, artiste, musiciste, che fanno dell’esposizione della propria emotività un punto di forza. Nel ripensare ad alcuni passaggi dei testi di ANTI, mi torna in mente l’artista Audrey Wollen, che sull’ultimo numero di Teen Vogue parla di Sad Girl Theory, dell’importanza della tristezza e dell’emotività come atto di ribellione: “È davvero difficile essere una ragazza nel mondo di oggi e talvolta non possiamo fare altro che essere tristi. Immaginate se ogni ragazza declassata come triste, pazza o autodistruttiva nel corso della storia fosse stata vista invece come una leader rivoluzionaria!”.

Rihanna Paris Fashion Week

Rihanna alla Paris Fashion Week

Qualunque cosa vi dicano le sue foto su Instagram e le pose sul red carpet, dentro a quest’album c’è qualcosa di più intenso, imperfetto e personale. Per una cantante che ha sfornato un album all’anno tra il 2005 e il 2012, ANTI è un atto di ribellione contro le convenzioni discografiche che vogliono che le popstar sfornino singoli memorabili e album dimenticabili, e siano condannate a farci divertire e saltare per sempre, con la stessa formula perfetta con cui ci si sono fissate in testa la prima volta che le abbiamo sentite.

Se questo è il pop nel 2016, Rihanna, forse, non è più una popstar. Non dal punto di vista musicale almeno. La sua immagine, il suo corpo, i suoi vestiti, continuano ad arricchire infatti l’immaginario pop contemporaneo di nuovi stimoli e provocazioni. Le ultime canzoni ci ricordano però che Rihanna non è solo un’immagine bidimensionale da guardare, ammirare e invidiare. È un essere umano e, che vi piaccia o no, un’artista che dice la sua e che merita di essere trattata e analizzata come tale, anche quando non rispetta il copione che ci aspettavamo.


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