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“Voglio poter immaginare un futuro e vedermi al suo interno”: un’intervista ad Alok Vaid-Menon

La scorsa estate l’attivista ed artista trans Alok Vaid-Menon è stat* invitat* a Schio, cittadina dell’Alto vicentino, per presentare la sua performance Femme in Public. Il giorno dello spettacolo ho avuto l’opportunità di intervistarl* e di raccogliere il suo eloquente punto di vista sull’importanza di documentare le emozioni, la necessità di costruire un futuro in grado di accogliere e celebrare i corpi trans e l’urgenza di una critica alle false verità propagandate dagli algoritmi dei social media.

Foto di Barbara Pigatto

Margherita Ferrari: Hai passato diversi mesi in tour per presentare la tua performance Femme in Public. Hai l’impressione ch’essa si sia evoluta attraverso l’interazione con il tuo pubblico internazionale?

Alok Vaid-Menon: Certo. Ognuna delle mie performance riflette il momento che sto vivendo, da un punto di vista emotivo, sociale e politico. In alcuni momenti il mio messaggio può risultare contraddittorio, in altri lineare. A volte sono moss* da passione, sogni ed empatia, a volte non riesco a non pensare che il mondo sia vicino alla sua fine. Tutto ciò dipende dalle persone che incontro in tour e dalle nostre conversazioni, ma anche da ciò che accade al mio corpo.

Il motivo per cui amo l’arte femminista è essa individua una relazione tra i nostri corpi e le nostre pratiche; il fatto che io subisca violenza mentre sono in tour non è trascurato. Il senso di dolore e l’angoscia dovute alle molestie che ho vissuto in Europa hanno dunque influenzato ciascuna delle mie performance.

Al contempo, nei mesi in cui ho vissuto in India, ho notato che i discorsi relativi al genere sono molto diversi rispetto a quelli europei. Lì non ho mai bisogno di spiegare e giustificare il mio essere non-binary perché le persone che si riconoscono in un terzo genere e le persone gender variant hanno molta visibilità.A livello politico, non ci si limita ad accettare l’esistenza delle identità non-binary, ma si ascolta ciò che queste persone hanno da dire. In Europa, invece, sento di dover combattere costantemente per il mio diritto di esistere, anziché discutere le questioni che mi stanno a cuore.

L’aver vissuto in India mi ha fatto capire quanto i femminismi occidentali necessitino di comprendere che hanno appena iniziato a scoprire concetti e realtà che le persone di colore hanno ripetuto e praticato per moltissimo tempo. Chiamare il femminismo intersezionale “nuovo” o “avanguardia” ignora le esperienze e le vite delle persone colonizzate in giro per il mondo. Loro non hanno avuto bisogno di framework come “trans” e “non-binary” per comprendere la realtà.

In quest’ultima fase del tour sto provando una grande umiltà nel contemplare la complessità del mondo. Ci sono così tante storie che non sono mai state raccontate e insegnate. La nostra relazione con queste storie dovrebbe essere basata sull’interrogativo “perché non sapevo nulla di tutto ciò?” anziché sull’autocelebrazione da parte di cui ha appreso qualcosa di nuovo.

 

Ho notato che di recente hai integrato il canto e l’utilizzo di un looper nelle tue performance. Hai l’impressione che questi nuovi elementi ti abbiano dato una mano a veicolare il tuo messaggio?

Assolutamente. C’è stato un momento in cui ho iniziato a chiedermi come esprimere un certo tipo di tristezza. Sapevo che non era possibile semplicemente parlando: avevo bisogno di un rumore. Non so se questo looper o il canto mi abbiano dato una mano a veicolare meglio il mio messaggio politico, ma so che mi hanno permesso di trasmettere meglio le mie emozioni. Il mio processo creativo è più incentrato su un’adeguata rappresentazione di un dato sentimento, piuttosto che sull’insegnamento di una lezione politica.

Negli ultimi tempi sto dedicando parecchie energie allo sviluppo della mia pratica artistica. A volte trovo frustrante che gli artisti appartenenti a minoranze siano celebrati per il solo fatto di parlare. Tutti dovrebbero cercare di imparare cose nuove e perfezionarsi, anziché accettare lo status quo. Di fronte a una donna, una persona trans, ecc. è facile offrire applausi di circostanza. La domanda che dovremmo porci è: “Come possiamo porre resistenza a questo inquadramento e proporci di migliorare?”.

 

Durante la fase europea del tuo tour hai incontrato diversi artisti il cui lavoro tocca temi come il razzismo e la supremazia bianca: dal tuo punto di vista, nelle loro opere è presente la traccia di framework nordamericani o invece se ne discostano?

Una delle cose che mi causa un grande conflitto interiore è il fatto che, in giro per il mondo, la gente trovi più semplice ascoltarmi o accogliere il mio lavoro perché sono una persona di colore proveniente dagli Stati Uniti. È facile ammettere che il problema del razzismo è grave in quel particolare contesto. Ciò che vi chiedo allora è se sareste altrettanto ricettivi ascoltando una persona proveniente dal vostro paese. Normalmente la risposta è no. Durante il mio tour ho incontrato una miriade di artist* di colore che hanno difficoltà a trovare date, a raggiungere una certa visibilità e a stabilire un dialogo con il pubblico del loro paese. Questo avviene perché mettono in discussione le istituzioni su cui si reggono le loro realtà sociali.

Negli ultimi cinque-dieci anni abbiamo assistito ad una riemersione dei movimenti anti-razzisti e di una condanna a livello globale degli Stati Uniti, spesso accompagnata dalle autocongratulazioni di chi dice: “Non siamo terribili come loro”. In realtà la questione è molto più complicata. Se ognuno ascoltasse le persone di colore nel proprio paese, ci si renderebbe conto che i problemi visibili negli Stati Uniti non sono presenti solo lì. Mi riferisco in particolar modo a temi come l’incarcerazione e la detenzione, nonché alla brutalità delle forze dell’ordine.
Gli artisti che ho incontrato sono stanch* di vedere framework nordamericani applicati indiscriminatamente in altri contesti, perché esistono delle differenze che non vanno trascurate.

Anch’io mi domando come attraversare certi spazi avendo coscienza di tali diversità. È vero: negli Stati Uniti accadono cose terribili, ma al contempo posso visitare un qualsiasi luogo al mondo e parlare di Hillary Clinton. Tutti sanno di chi sto parlando. Io però non conosco i politici italiani, ad esempio. L’imperialismo statunitense funziona così: si pone come epicentro di questi dialoghi, sebbene esistano una miriade di espressioni locali dello stesso o di diversi modi di vivere. Penso quindi che essere un* artista di colore attiv* in Europa sia arduo, se si è costretti a utilizzare articolazioni nord americane di una data questione per attirare l’attenzione.

Anche la questione della lingua è importantissima; ad esempio, cosa significa offrire delle performance esclusivamente in inglese? Una delle domande che ho sentito più spesso durante il tour è: “Come possiamo parlare di neutralità in questa lingua, quando essa è priva di pronomi o formule neutre? Quando non esiste una parola per dire “non-binary”?”. Dobbiamo dunque pensare alla traduzione e all’interpretazione come strumenti politici, a dare spazio agli/lle artist* appartenenti a minoranze che lavorano in lingue diverse dall’inglese.

Quello che voglio dire è dunque che queste persone non si limitano ad usare framework nordamericani. Ciò che stanno facendo è una danza in cui bilanciano il riconoscimento del dominio dei discorsi provenienti dagli Stati Uniti e la creazione di concetti e framework a livello locale.

Penso ad esempio a Travis Alabanza, un* artista transfemme di colore che viene dal Regno Unito, che spesso incontra grande ostilità quando parla di razzismo nel proprio paese. Il mio obiettivo, non potendo fare giustizia ad ogni singola realtà in cui mi trovo, è quindi quello di contestualizzare la mia performance spiegando che i temi che vi sono trattati sono ancorati all’esperienza statunitense, ma che ciò non significa che non sia rilevanti altrove.
Per comprendere una realtà locale, allora, invito tutt* ad ascoltare gli artisti del luogo.

I nostri movimenti femministi devono aprirsi ad una molteplicità di voci, senza aspettarsi che ogni singola persona sia completamente preparata su ogni argomento e pronta a rappresentarlo. Abbiamo invece bisogno di una moltitudine di persone, ognuna delle quali potrà contribuire a modo suo.

Hai l’impressione che i social media presentino talvolta scenari in cui il numero di voci che ci è dato ascoltare è limitato? Su Facebook, ad esempio, ho notato che l’algoritmo tende a presentarmi una scarsità di contenuti, provenienti da fonti che sono geograficamente distanti dalla città o dal paese in cui vivo. Se voglio mettermi in contatto con attivist* di lingua italiana, devo cercare attivamente, interrogando le persone che conosco davvero, mentre la piattaforma mi propone quasi esclusivamente materiale rilevante per chi opera in Nord America.

Assolutamente. Dobbiamo problematizzare il modo in cui i social media creano dei miraggi, all’interno dei quali pare che solo alcune persone siano attive e impegnate a portare avanti certe lotte. Una cosa che tengo sempre a mente è che il lavoro più importante che viene fatto non è rappresentabile sui social media. Quando sei investit* dal tuo attivismo, non ti fermerai a scattare un selfie, perché la tua attenzione è altrove.

Penso inoltre che sia imperativo mettere in discussione il meccanismo attraverso il quale solo gli/le artist* che hanno una presenza molto vivace sui social media riescono a trovare opportunità di lavoro. Nel mio caso, passo tantissimo tempo a curare i miei contenuti social, anche quando preferirei fare qualcos’altro. So però che se non lo facessi, smetterei di essere considerat* rilevante. Si tratta quindi spesso un peso, che si aggiunge al fatto di dover navigare un regime economico che mette costantemente in dubbio il tuo valore. Affinché la tua voce sia legittimata, devi investire un sacco di tempo in quello che a tutti gli effetti è lavoro non retribuito.

L’illusione di una meritocrazia, l’idea che il numero di follower sia un indicatore del valore di una persona, la creazione di scenari in cui i singoli individui sono a tutti gli effetti isolati; questi sono effetti del neoliberalismo.

Una delle conseguenze più significative che ho osservato è l’effettiva rimozione di generazioni di artist* e attivist* che non operano o non hanno operato online. Prima di trasferirmi a New York, non sapevo nulla delle persone trans che si dedicarono alla performance art già dagli ’60 e ’70. Credo quindi che trattare acriticamente Instagram come fonte arrechi un danno ai nostri antenati.

Ci piace fingere che certi concetti [come l’intersezionalità, N.d.A] siano una novità, ma non è così. Dobbiamo imparare a informarci da una varietà di fonti, tra cui i libri. Dobbiamo dedicarci al lavoro curatoriale, visitare mostre, insegnarci vicendevolmente ciò che abbiamo studiato, incontrarci di persona e analizzare le storie che non sono mai entrate nel mainstream.

 

Durante uno dei tuoi livestream di luglio hai parlato dell’importanza di documentare le emozioni, in particolar modo quelle delle persone che, nel corso delle storia, sono state oggetto di marginalizzazione. Dal tuo punto di vista il contesto accademico può rivelarsi adatto a questo processo o credi che gli ostacoli strutturali che lo permeano lo rendano impossibile?

Ogni istituzione può essere ri-concepita e adattata a nuove esigenze. Naturalmente si tratta di una cosa difficile da fare, perché questi spazi sono stati pensati per altri scopi.

La domanda che dovremmo porci è: “Come possiamo popolarli, immaginando al contempo scenari alternativi per essi?”. Questo implica ambivalenza; dobbiamo smettere di accettare acriticamente le grandi istituzioni presenti nelle nostre società. Quando crediamo nell’università, diventiamo l’università, e il rischio è di perdere di vista il motivo per cui siamo approdat* lì. L’obiettivo era essere pubblicati o invece raccogliere materiale d’archivio?

Una delle conseguenze del capitalismo coloniale è che buona parte delle risorse più preziose sono state privatizzate. È quindi difficile studiare argomenti come la storia e le culture del sud-est asiatico, ad esempio, quando gli archivi si trovano in Inghilterra. Chi ha accesso a questi archivi? Solitamente si tratta di persone di ceto elevato, iscritte all’università e in grado di parlare la lingua inglese. È uno strano paradosso: devo recarmi in Inghilterra, anziché in India, per studiare la storia della mia gente. Non è naturale: è distopico.

Penso spesso all’espressone “scavenger methodology”(1), coniata dall’accademica queer Gayatri Gopinath, la quale sostiene che le persone marginalizzate non hanno archivi di riferimento. Non c’è contesto istituzionale in cui poter studiare la propria storia e la propria cultura. L’unica opzione è quella di andare a caccia di informazioni nei luoghi più disparati, mescolando post su Instagram con romanzi e ritagli di giornale degli anni ’60. Ed è così che arrivi a costruire la tua identità.

Uno degli effetti del patriarcato e dei nazionalismi è il senso di frammentazione che proviamo rispetto al nostro essere. Molt* di noi si domandano se siamo sempre esistit*, chi siamo, a che lingua apparteniamo.
Nel mio lavoro torno spesso a questi interrogativi, perché sono alla ricerca di modi per sentirmi reale. In una miriade di occasioni, forze esterne mi hanno fatto sentire come se fossi un’opera di fantascienza.
Ma non solo questo; come posso mettere in discussione la mia necessità di sentirmi reale? Perché non posso accettare il fatto di essere uno scherzo della natura, un’opera di fantascienza?

 

Di recente ho iniziato a leggere l’antologia Octavia’s Brood, curata da Walidah Imarisha e adrienne maree brown. Sono rimasta molto colpita da una delle frasi che aprono il libro: “We believe it is our right and responsability to write ourselves into to the future”(2).
Quest’affermazione mi ha portato alla mente le lingue che non sono strutturate per includere e celebrare le persone trans, dal genere non conforme, non binarie e di colore.
In che misura scrivere te stess* nel futuro, nel presente e nel passato influenza la tua vita?

Foto di Barbara Pigatto

In un certo senso… è quello che faccio. A dir la verità non mi capita mai di fermarmi a pensare a queste cose, ma credo proprio sia così.

Ci troviamo in una situazione disperata, in cui un sacco di artist* e attivist* trans, soprattutto se sono di colore come me, sono costrett* a partire da zero.

Non penso spesso alla costruzione del futuro, perché buona del mio lavoro è orientato al poter dire: “In questo momento esisto”.
Quando la gente mi scrive dicendo che sto aiutando a creare un nuovo futuro, per me è sempre uno shock. Talvolta mi sembra di non meritare un futuro, anche se so che questo dipende dal mio razzismo e dalla mia transfobia interalizzata.

Un’altra questione importante riguarda il fatto che mi sembra sempre di dover produrre materiale esplicito, anziché astratto. Devo esprimermi letteralmente, perché le uniche persone a cui è concesso di usare la propria immaginazione sono quelle che occupano posizioni di potere.

Io devo essere un corpo; mai una mente, un intelletto.
Ho trovato incoraggiante la risposta critica allo slogan “The Future is Female”(3), in particolar modo da parte di chi risponde invece che il futuro è non binario, perché il passato è non binario. Ho apprezzato le persone che mi hanno ringraziato per averle aiutate a comprendere questo concetto. Detto questo, ammetto di non essere in grado di immaginare il futuro perché buona parte del mio lavoro è incentrato su modi per sopravvivere nel breve periodo.

Voglio poter immaginare un futuro e vedermi al suo interno. Il problema è che laddove la cultura transfeminine riesce a raggiungere il futuro, molto spesso i corpi transfeminine sono annientati. La violenza fisica, verbale e sessuale che subiamo, la depressione, la disforia fanno sì che le nostre idee, le nostre estetiche e il nostro attivismo sopravvivano dopo la nostra scomparsa. La verità è che l’arte trans, le politiche trans, le estetiche trans e la teoria trans sembrano contare più delle persone trans.

Se invece l’attenzione fosse sui nostri corpi, non saremmo costrett* a subire tutta questa violenza. Non penso spesso al futuro perché se lo facessi dovrei accettare il fatto di essere molestat* per il resto della mia vita.
Non posso iniziare un processo di transizione per scomparire nel binarismo e nella coerenza. Sarò sempre al di fuori di questi framework, il che significa che non ci sarà mai giorno in cui potrò camminare per strada senza provare paura.

Un paio d’anni fa ho detto a mia madre: “Ho lavorato così duramente; per tutta la vita ho investito nel mio lavoro creativo e temo che, a causa del razzismo, della transfobia e della discriminazione nei confronti degli anziani, non verrà mai riconosciuto.” Mia madre ha risposto: “Il tuo lavoro sarà riconosciuto dopo la tua morte.” L’ha detto come se fosse un dato di fatto e questo è terrificante. Molt* artist* queer di colore che oggi sono apprezzat*, come Sylvia Rivera e James Baldwin, subirono costante antagonismo da viv*.

Molto spesso mi viene detto che sono troppo visionari*. È una cosa terribile da dire a un* artista, perché il messaggio implicito è che vivere nei nostri corpi, con le nostre idee e i nostri sentimenti sia impossibile.
I miei show sono un tentativo di viaggio nel tempo, in cui possiamo ammettere quanto siamo interconnessi, soli, feriti, vulnerabili. Alla fine di ogni performance vorrei sparire, perché per un’ora e mezza ho visto un futuro possibile, che abbiamo creato insieme. Al termine dello show, tornare nel mondo è tragico. È in quel momento doloroso che può avvenire una transizione nell’attivismo.

Apprezzo moltissimo i gruppi come Starfish, perché so quanto sia difficile contenere le mie performance, preparando e seguendo la comunità che le ospita. Questa è una cosa che manca nel mondo dell’arte. Il lavoro curatoriale consiste nella creazione di una crisi, al termine della quale ognuno torna a casa propria dicendosi: “Che interessante!”. Gli attivisti, invece, investono energie anche nel lavoro di cura che segue la performance, nonché sulle modalità per processarla.

Il supporto che segue la crisi è fondamentale, perché ciò che sto incontrando nel mio lavoro è terribilmente intenso. Il mondo ci sta mentendo e sta essendo terribilmente crudele. Voglio fare tutto il possibile per creare rotture nel tempo, nella storia, nello spazio, nell’idea di nazione, di modo che ognun* di noi possa essere reale. Ma mi domando, chi è pronto a supportare me? Durante ognuno dei miei show investo la totalità delle mie energie, la totalità del mio corpo. Di recente Travis Alabanza mi ha detto: “Non puoi sopravvivere se continui di questo passo.”

La verità è che ho il timore che ognuna delle mie performance sia l’ultima. Capisco perché mi comporto in questo modo, ma in questo momento voglio imparare a credere nella possibilità del mio futuro. Molte persone femministe parlano con eloquenza dei movimenti che vogliamo creare, ma includere i nostri corpi nell’equazione… ah, è molto difficile. A volte mi accorgo di dare priorità a tutto, fuorché al mio corpo e alla mia vita, e non sono l’unica persona femminista a comportarsi così. A volte mi chiedo se ne valga la pena. Perché non posso semplicemente stare bene? Perché non posso semplicemente essere?

Durante il mese di giugno hai scritto delle splendide lettere d’amore su Instagram usando l’hashtag #reclaimpride. Ti va di parlarmene?

È stato bellissimo. Una delle mie cose preferite è celebrare le persone che amo. L’ho fatto innanzitutto per mettere in discussione il mio cinismo. Ero una di quelle che persone che criticavano il Pride perché è stato snaturato, ma la verità è che la questione è più complicata. Il Pride significa un sacco di cose diverse. Quando dico Pride non intendo quello mercificato. Ho scritto quelle lettere perché sono orgoglios* dei miei amici queer e trans che continuano a resistere, nonostante tutto.

L’idea mi è venuta dopo aver visto una performance di Grace Dunham, durante la quale ha detto una poesia d’amore per un* amic* che era presente sul palco. Ricordo di aver pianto e di aver detto a Grace che non avevo mai scritto niente positivo, gioioso e pieno di speranza.

Le lettere sono state anche un esercizio per ricordarmi che sono una persona amabile e che i miei amici lo sono a loro volta, nonostante ciò che la storia, il tempo e i confini ci hanno insegnato. Il motivo per cui ho scritto solo di persone trans, non-binary, queer e di colore è che volevo farle sentire amate, laddove strutturalmente questo non accade mai.

Spesso diamo per scontato che le persone sappiano quanto valgono. Eppure quasi tutte le persone queer che conosco sono depresse, ansiose, tristi e si sentono insufficienti. La mia speranza è che ci si smarchi da una cultura nella quale non facciamo altro che criticarci a vicenda, per iniziare invece a supportarci e celebrarci. È per questo che mi fotografo o mi concedo dei momenti di vanità.

Gli attivisti che pensano solo alla distruzione mi annoiano a morte. È un atteggiamento così patriarcale, così misogino… Voglio che l’attivismo non si fermi alla cancellazione della violenza, ma che si focalizzi sulla costruzione del benessere, sulla creazione di un nuovo mondo.

Nel mio lavoro sono critic*, ma sto imparando ad esplicitare chi sono le persone che rendono la mia vita degna di essere vissuta, chi sono gli artisti che mi ispirano. È una posizione nuova, dalla quale sto poco per volta imparando ad immaginare un futuro, un’alternativa. E per me questo è molto emozionante.

 


(1) Traducibile in “metodologia di chi rovista”.
(2) Crediamo che scrivere noi stess* nel futuro sia nostro diritto e nostra responsabilità.
(3) Il futuro è femmina.


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