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Seconde generazioni. L’Italia nelle parole d...

Seconde generazioni. L’Italia nelle parole di Samar

Non è facile essere donne. Non è facile essere giovani donne, in Italia – con tutti i limiti che una cultura “mediterranea” fortemente radicata nel nostro paese ancora impone – non è facile essere giovani donne italiane di origine straniera. Qualcuno le chiama “seconde generazioni”: sono le ragazze e i ragazzi nati in Italia, da genitori che provengono da altri paesi. Due lingue (o più), due tradizioni culturali, due religioni (a volte nessuna), due storie, due geografie, due approcci sul mondo. Potrebbe essere la loro fortuna, ma spesso rappresenta un limite, per ragioni esterne (diffidenze, chiusure, razzismo, sempre più arrogante) ed interne (il continuo barcamenarsi fra due mondi, il bisogno di trovare un’identità personale definita pur nella molteplicità). Un percorso che accomuna uomini e donne, ma che per una ragazza può essere più complicato.

Samar è nata nel 1989, un anno importante per la storia, la politica e la cultura occidentali. Un anno in cui molte cose sono cambiate e che, per alcuni, rappresenta lo spartiacque fra il Novecento – con le sue ideologie, la sua visione del mondo, i suoi equilibri economici – e il nuovo millennio.  Samar è parmigiana, i suoi genitori sono egiziani e io, quando l’ho conosciuta al lavoro, ho pensato che fosse molisana, perché aveva lo stesso identico accento di una mia amica che viene da lì. Bisognerebbe forse fare un gemellaggio Campobasso/Cairo.

Negli anni mi sono trovata a parlare con lei di lavoro, di famiglia, di scuola e di femminismo. Abbiamo diviso l’ufficio e i racconti dei primi mesi di vita di sua figlia (che di lingue ne conosce ben più di me ed è alta meno di un metro). Così, in un momento in cui l’Italia sembra essere impazzita e tornata agli anni Venti del secolo scorso, ho deciso di intervistarla e fare due chiacchiere con lei su cosa significhi essere donna, figlia, lavoratrice, mamma in questo paese chiamandosi Samar.

 

Ti va di raccontarci un po’ la tua esperienza di italiana con una famiglia di origini straniere?

Mio papà è arrivato in Italia negli anni 70, mia mamma invece lo ha raggiunto più tardi, nell’86, poi sono nata io nell’89. Ai quei tempi gli stranieri si contavano sulle dita di una mano, abitavamo in centro, in un solaio adibito a casa e, nonostante ci fosse più lavoro, i miei genitori avevano dovuto iniziare tutto da zero e le possibilità non erano tante. Mio papà fece il possibile per iscrivermi all’asilo e la mia esperienza nelle scuole è iniziata molto presto, i miei primi ricordi risalgono alla materna, ma non ho avuto fortuna. Mi capitò una tata un po’ particolare, mi ha chiamata “asina e scimmia” e ricordo che anche altre bimbe lo facevano, ricordo qualche episodio un po’ spiacevole ma non voglio soffermarmi su questo perché in fondo penso sia stata davvero sfortuna.
Vorrei ricordare invece il piccolo appartamento di via Farini, piccolo ma sempre aperto per gli amici, quasi tutti italiani. Essendo in pieno centro era facile ricevere visite e senza troppi complimenti la casa era sempre piena per pranzi e cene insieme, la chiamavano “pizzeria Omaima”. Omaima è mia mamma e fa una pizza buonissima, imparata proprio qui in Italia.

Hai incontrato problemi nel mondo della scuola quando eri piccola, rispetto alle tue origini?

Durante il periodo scolastico si sono ripetuti altri episodi spiacevoli che spesso mi hanno fatto sentire “fuori luogo e straniera”. Soprattutto dopo l’11 settembre, i miei compagni erano molto incuriositi, forse anche perché sentivano a casa discorsi e mi chiedevano tante cose delle mie origini e religioni, cose a cui spesso non sapevo rispondere perché non mi ero mai interessata. In seconda superiore , sentivo sempre più l’esigenza di far parte di una comunità che mi accettasse e decisi di mettere il velo, ero anche molto attiva a livello associativo con i “Giovani Musulmani d’Italia” un gruppo di seconda generazione, che come me cercava equilibrio in una società che spesso non li riconosceva, grazie al GMI sono riuscita a capire tante cose e condividere con altri ragazzi la mia esperienza, il mio cerchio di amicizie non era più quello dei compagni di scuola ma dei ragazzi conosciuti in associazione.

Normalmente nella fase di crescita (penso all’adolescenza) i ragazzi mettono molto in discussione la famiglia, le tradizioni, il nucleo di provenienza diciamo, e al tempo stesso la società in cui vivono. Il classico discorso “io non sarò mai come voi”. Per te com’è stato questo passaggio? Se c’è stata una “contestazione” verso cosa è stata?

Con i miei genitori sono sempre stata in conflitto, li ho sempre visti sofferenti durante la mia crescita; combattuti, per primi loro, tra tradizioni/cultura di origine e quella in cui si trovavano. Ho sempre percepito la loro permanenza in Italia come temporanea. Ci tenevano tanto a mantenere la cultura di origine e soprattutto a trasmetterla a me e mio fratello, non capendo spesso che ci davano tanti limiti difficili da mantenere.

La questione culturale però non va mischiata con quella educativa, c’è da dire che ho avuto un’educazione rigida in generale (cosa che avrebbero potuto avere anche figli di genitori italiani al 100%) infatti non hanno mai avuto problemi che uscissimo con i nostri amici italiani. I problemi erano per le uscite fino a tarda notte (mai stata in discoteca in vita mia… non ho mai dormito da un’amica). Semplicemente non volevano e non si fidavano. Mio papà ci teneva a dare le stesse regole a me e mio fratello, il coprifuoco era uguale per entrambi: alle 22 bisognava essere a casa… mio fratello da un certo punto in poi se n’è fregato alimentando ancora di più i conflitti, piano piano siamo riusciti, entrambi ad ottenere qualcosa in più ma non è stato facile.

E poi, come hai costruito via via la tua identità personale e di donna?

Finite le superiori mi sono iscritta all’università e il mio velo non suscitava più tanto interesse, diciamo che l’ambiente universitario era più tranquillo, ovviamente mi trovavo sempre nei gruppetti con i fuori sede e si scherzava sempre sul fatto che ero la più parmigiana di tutti lì in mezzo! Ho dovuto lavorare tantissimo su me stessa e la mia identità, ho fatto anche servizio civile al centro antiviolenza sulle donne che mi ha aperto davvero tantissime prospettive.

Donne e lavoro. Un binomio difficile in termini di equità, parità e retribuzione. In questo senso non ci sono molte differenze legate alla storia familiare di provenienza…o forse si?

Il mondo del lavoro non è mai stato facile con il velo per esempio, mio papà mi diceva sempre “Se gli altri fanno 2, tu devi fare 4 per dimostrare che vali quanto loro”. Mio papà non è mai stato favorevole al mio velo, era preoccupato, aveva paura di quello che gli altri potevano dirmi o farmi.

Effettivamente gli anni passati con il velo (10 anni) sono stati molto complicati, sapevo che qualsiasi cosa faceva sarei stata giudicata, pensavo sempre: “Ecco ora se anche solo butto un pezzo di carta per terra sarò vista come la straniera maleducata musulmana che getta la carta per terra”, quindi il senso di responsabilità verso le mie azioni era veramente un carico importante e pesante per me.

A 24 anni decisi di toglierlo perché non sentivo più di portarlo con convinzione, non faceva più parte del mio essere e della mia routine, non volevo più essere etichettate, ma questo è davvero un discorso complesso e non voglio limitarmi a spiegarlo in due righe, so bene come mi sentivo e dopo mesi di esitazione, ne ho parlato con i miei e ho deciso di toglierlo. Mia mamma l’ha presa molto male, mio papà mi ha chiesto i motivi , gli dissi che stavo facendo davvero fatica a gestirlo e non lo sentivo più mio, mi rispose: “Ti avevo avvisato quando hai deciso di metterlo… comunque è una tua scelta, fai tu… mi raccomando però”.

Le preoccupazioni di mia mamma erano: “Tutte le mie amiche mi dicono sempre che usano te come esempio per le proprie figlie… ora ti rendi conto che delusione sarà per tutti? Sei forte e devi continuare così”. Ma proprio le sue parole mi hanno aperto gli occhi. Forse, ultimamente, lo stavo portando più per gli altri, per dimostrare qualcosa, che per me stessa, pur rispettando assolutamente il dogma religioso che racchiude il velo.

Quali pensi siano i limiti – se ne vedi – nella cultura italiana rispetto al ruolo femminile e quali quelli della tua tradizione culturale familiare?

Nella cultura italiana vedo tanti limiti nei confronti delle donne, vedo tante pretese nei nostri confronti, dobbiamo sempre essere perfette, impeccabili, se fai figli significa che non puoi fare carriera e viceversa. Diventando mamma poi ho scoperto davvero tanti aspetti che mi hanno convinta sempre di più dell’ignoranza che c’è su questi temi in Italia. Se prima era un problema trovare lavoro per via del velo, ora lo è per via della mia maternità. Secondo me è vergognoso anche solo chiederlo durante un colloquio di lavoro. Ci sono tanti dogmi e regole non dette a cui deve sottostare la donna, tutto ciò la rende meno libera in questa società, spero che cambi qualcosa negli anni a venire, spero che quando si parlerà di libertà ci sia un concetto profondo di essa e che non siano solo parole. La libertà di essere grasse, magre, sportive, eleganti, truccate e non, la libertà di voler fare carriera e anche i figli, la libertà di fare figli e non voler fare carriera, la libertà di decidere senza timore di essere giudicate ma soprattutto la libertà di dire “sono stanca” senza essere additata come “l’esaurita di turno”. Abbiamo il diritto o no di essere stanche?

Ultima domanda, di prospettiva. Come vedi questa Italia? Che tipo di paese e di futuro per tua figlia e per le donne di domani?

A mia figlia spero di insegnare una cosa per me fondamentale, una cosa che a me è mancata davvero tanto, ovvero fare ciò che lei ritiene più giusto per se stessa e la sua felicità, senza la paura di essere giudicata o la paura di sbagliare; si sbaglia sempre, l’importante è poi rialzarsi.

Per il futuro spero davvero in un apertura mentale più diffusa, direi delle banalità e non voglio… voglio pace, amore peaceandlove! Soprattutto in questo momento delicato per la politica italiana, mi auguro davvero che le cose migliorino, che non ci sia più questa paura e pregiudizio nei confronti dell’altro.


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