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Sheryl Sandberg e la discriminazione delle donne in carriera

Lean In: Women, Work and the Will to lead (edito da Knopf; in italiano Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire, edito da Mondadori) è un libro scritto da Sheryl Sandberg, pubblicato nel 2013.
Forse il nome di questa donna non è noto, ma lo è l’azienda all’interno della quale ha un ruolo fondamentale: Sandberg è l’attuale COO (Chief Operating Officer) di Facebook, e non solo. In precedenza è stata vice presidente della sezione Vendite globali online di Google e ancora prima capo del personale del Segretario del Tesoro, inoltre nel 2014 ha guadagnato il nono posto nella classifica di Forbes de “Le 100 donne più potenti del mondo”, posizionandosi persino prima di Michelle Obama.

Sheryl Sandberg è una donna che ha saputo spianarsi la strada per ricoprire posizioni importanti in due imprese che non solo sono tra le più influenti a livello mondiale, ma che sono anche leader nel campo della tecnologia, settore a volte ancora diffidente riguardo le capacità del genere femminile.

0324f-lean-bd-20pAlcuni hanno definito questo libro il nuovo manifesto femminista del 21esimo secolo, ma si sbagliavano. È vero, il tema principale è la discriminazione femminile ed il libro ha avuto una grande risonanza, ma Sandberg non ha la pretesa di farsi portavoce di tutte le donne, ma solo del tipo che lei conosce bene, ovvero quelle che vogliono avere successo nel mondo del lavoro e che hanno come ambizione quella di ricoprire cariche importanti.

Una delle maggiori critiche che le sono state rivolte è stata quella di aver preso in considerazione solo le donne che si possono permettere una buona istruzione, e che perciò hanno la possibilità di puntare in alto nel mondo del lavoro (Sandberg ha frequentato Harvard e non un’università pubblica).

Forse questo è, per assurdo, un dato positivo: Sandberg non ha avuto la presunzione di dare consigli a donne dall’esperienza lavorativa diversa dalla sua, ergendosi a rappresentante del mondo femminile. Sebbene i contesti di cui racconta di aver fatto parte siano elitari, non lo sono i contenuti del libro che dimostrano invece sensibilità nei confronti di chi non ha i suoi stessi privilegi.

Questo libro deriva dalla sua esperienza di donna in carriera, da ciò che ha imparato e da cosa può insegnare lei alle donne che si preparano ad affrontarla. L’obiettivo di Sandberg consiste nel dare, attraverso questa lettura, maggiore consapevolezza sia alle donne che agli uomini della loro discriminazione nell’ambito lavorativo, perché siano pronti ad affrontarlo e cercare di risolverlo. Il libro è anche un invito alle donne ad essere più sicure di sé, più forti nel richiedere ciò che spetta loro e più consapevoli nelle scelte di tutti giorni.

Sono numerose le questioni prese in causa da Sandberg, e varrebbe la pena analizzarle tutte, ma qui prenderò in considerazioni quelle a mio parere più rilevanti.

Il libro si apre con una lunga serie di statistiche e di considerazioni su quanto il genere femminile risulti (in base a percentuali sul totale degli esaminati, non in quanto a indole individuale) più riluttante a puntare a posizioni lavorative di rilievo, spesso perché già consapevole fin dalla giovane età della possibilità di dover gestire in un futuro non solamente il lavoro, ma anche figli e famiglia, con un carico di impegni generalmente maggiore a quello di un uomo.

Una ricerca del 2003 sviluppata negli Stati Uniti ha scoperto che il 19% degli uomini e solo il 9% delle donne aspirano a diventare CEO o soci di un’azienda o impresa. La stessa ricerca ha scoperto anche che dei dirigenti che sostengono di avere ridotto le proprie aspirazioni a livello lavorativo con il passare degli anni (il 25% degli intervistati totali) il 34% erano donne e il 21% uomini.

Sheryl-Sandberg

Ma non è solo questa la ragione dello scoramento: un’altra è la cattiva reputazione che spesso si assegna alla donna di successo. Una delle radici della discriminazione delle donne lavoratrici, secondo l’esperienza di Sandberg, non è la mancanza di carattere forte ed imprenditoriale nelle donne, ma una questione culturale. Infatti il concetto di successo, riferito agli uomini e da un punto di vista sociale, viene considerato positivo indipendentemente dallo status familiare dell’uomo di cui si parla, mentre assume una carica negativa se associato alle donne. Non è un caso che ancora molte persone affianchino l’immagine di “donna di successo” con quella di una donna che non dà abbastanza importanza al marito e ai propri figli.

Sandberg non giudica negativamente le donne che decidono di lasciare il lavoro per dedicare più tempo ai figli, ma evidenzia l’importanza del creare le condizioni ideali perché ogni donna possa scegliere in modo autonomo senza essere influenzata da fattori economici e sociali o da sensi di colpa.

“(…)feminism wasn’t supposed to make us feel guilty, or prod us into competitions over who is raising children better, organizing more cooperative marriages, or getting less sleep. It was supposed to make us free -to give us not only choices but the ability to make these choices without constantly that feeling that we’d somehow gotten it wrong”.

“(…)l’intenzione del femminismo non era quella di farci sentire in colpa, o di incitarci a competere con chi educa meglio i figli, con chi ha matrimoni più cooperativi, o con chi riesce a dormire di meno. L’intenzione era di liberarci – di non darci solamente la possibilità di scelta, ma l’abilità di portare avanti queste scelte senza sentire costantemente di aver fatto qualcosa di sbagliato”.

Sandberg dimostra, citando diverse statistiche (i riferimenti a studi su ogni argomento di cui parla sono davvero tantissimi, molto spesso anche 2/3 per pagina), che le stesse caratteristiche caratteriali che conducono al successo, indipendentemente dal sesso, sono considerate positive per gli uomini ma non lo sono per le donne, da cui si tende ad aspettarci un carattere più mite e confortante. Se un uomo dal carattere duro e deciso viene rispettato, una donna con un carattere simile, viene considerata “bossy”, antipatica e dispotica, ed ha più probabilità di venire vista negativamente sia dai suoi sottoposti che dai colleghi di lavoro.

Sandberg non ha paura di dire che dobbiamo essere aiutate anche dagli uomini, oltre che da noi stesse: se non saranno i leader uomini, ovvero l’attuale maggioranza delle persone che ricoprono cariche importanti o autorevoli, ad accorgersi della mancanza di presenza femminile nei cosiddetti “piani alti” e ad attivarsi per risolvere questa situazione la strada per raggiungere la parità sarà sicuramente più lunga e difficile. Ma attenzione: non ne fa un ragionamento di quote rosa, sostenendo che le donne si meritino il lavoro solo per un fattore di numeri.

L’importante è che in un’azienda nella quale i ritmi di lavoro sono difficili, a parità di competenze e di esperienze, si eviti di scegliere l’uomo perché non è a rischio di maternità, o perché è meno probabile che corra a prendere i figli malati a scuola durante l’orario di lavoro, o per paura che la donna anteponga i bisogni della propria famiglia rispetto a quelli dell’azienda. Non sono solo le donne ad avere figli, o a prendersene cura.

Sandberg parla molto anche dell’importanza del sostegno del/della compagn* che scegliamo di avere al nostro fianco: è importante che l’incoraggiamento a perseguire la nostra carriera, se quella è la scelta che vogliamo fare, provenga da quella persona. Perché senza il sostegno di una persona disposta a dividere tutti gli impegni e le responsabilità familiari una volta terminato l’orario di lavoro, il lavoro stesso si trasformerà in un ostacolo.

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Sandberg per prima sottolinea il ruolo che ha avuto non solo sostegno di suo marito (David Goldberg, deceduto quest’anno, era stato uno dei dirigenti di Yahoo! e CEO di SurveyMonkey) ma anche il fatto che lui non si sia mai rifiutato di prendersi la metà delle responsabilità nei confronti della crescita dei figli e della gestione familiare per l’evolversi della sua carriera. Se così non fosse stato, Sandberg ammette che non avrebbe potuto sostenere gli orari e gli impegni di lavoro e contemporaneamente occuparsi interamente dei figli e della casa, finendo inevitabilmente per l’abbandonare il proprio lavoro, o accontentarsi di una posizione minore.

Sandberg spiega anche che l’abbandono del lavoro per motivi familiari da parte delle donne non è sempre un problema di istruzione o professionalità inferiore rispetto ai propri compagni. A riguardo viene citata una statistica significativa: uno studio su tre gruppi di ex studenti di Harvard (dal 1962 al 1972, dal 1979 al 1982, e dal 1989 al 1992) ha dimostrato che 15 anni dopo la laurea, il numero di uomini che avevano un lavoro full-time tutto l’anno variava dal 90 al 94%, mentre la percentuale femminile variava dal 60 al 63,5%. Se si restringeva il campo alle donne con due bambini, la percentuale femminile si abbassava variando dal 41 al 47%. Vi riporto l’esempio di Harvard, ma Sandberg cita anche altre università importanti i cui dati sono ancora peggiori.

Un’ultima riflessione, la più importante forse di quelle trattate nel libro: Sandberg sostiene che nonostante esista ancora la discriminazione, oramai siamo consapevoli del fatto che le donne hanno le capacità di fare tutto ciò che fanno gli uomini, ma che il contrario non è ancora del tutto vero, ed anche questo fattore è determinante nell’ampliare la disparità di genere.

“I believe that the world would be a better place if half our companies and half our countries were run by women and half our homes were run by men”.

“Io credo che il mondo sarebbe un posto migliore se metà delle nostre imprese e dei nostri stati fossero gestiti da donne e se metà delle nostre case fossero gestite da uomini”.


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