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Liberazione, visibilità, consapevolezza: disabilità e altre intersezioni

What does it mean to be fat, physically disabled and bisexual?
-Nomy Lamm

Se avete avuto modo di avvicinarvi al movimento riot grrrl di sicuro vi è capitato di imbattervi in Nomy Lamm.

Disabile, queer e grassa. Sono gli aggettivi che usa lei stessa per descriversi, senza la voglia di cercare eufemismi, di edulcorare i concetti che esprimono. Nata con una sola gamba, unica persona sovrappeso della famiglia, Nomy Lamm ha trascorso una vita intera a cercare di de-patologizzare il proprio corpo. Insulti e soprusi da parte di conoscenti e estranei si sono tramutati per lei in qualcosa di positivo, la chiave per una rivoluzione personale, e non solo.

Nel suo saggio It’s a big fat revolution parla di come le sue esperienze private siano diventate lo spunto per il suo attivismo, per poi cercare di arrivare con strumenti come le zines autoprodotte a più persone possibili. Il mondo è pieno di persone che non possono prendere la parola e far valere le proprie ragioni, ed è per questo che Nomy Lamm, in quanto figlia di quella borghesia bianca americana piena di privilegi e che può permettersi un’istruzione di qualità, decide farsi avanti anche per loro.

Può sembrare banale, ma il primo passo fatto da Nomy per rivendicare spazio all’interno della società è linguistico. Al diavolo espressioni come “curvy” e “bellezza interiore”. Riappropriarsi di parole come grass*, disabile, queer, ristabilendo un sano rapporto tra significato e significante, equivale a conferire legittimità alla propria natura, nonché ad avere una rivincita (linguistica) sul mondo. Ignorare concetti come razza, classe, genere, preferenze sessuali, disabilità e non parlarne significherebbe infatti diventare tabù di sé stessi, autocensurarsi e provare disagio per non appartenere a quell’unica categoria (maschio, bianco, eterosessuale, ricco, magro) che ha diritto di esistenza e potere nella società attuale.

Nomy Lamm

Nomy Lamm

We do not live single issues lives
-Audre Lorde

Come avrete capito, la parola chiave di questo argomento è intersezionalità, cioè tutto quello che risulta dall’incontro/scontro di diverse categorie sociali, tra cui classe, genere, razza, religione, (dis)abilità, solo per citare le “classiche”.
Il fatto di tenere presente diversi fattori per l’analisi di un argomento è la nuova frontiera delle scienze sociali, che ha finito per influenzare anche le teorie femministe per poi consolidare quelle – più ampie – di genere.

Sul livello pratico, l’approccio intersezionalista ha portato all’unione di soggetti che fino a poco prima non avevano mai comunicato tra loro. È così che, ad esempio, vediamo fiorire ultimamente numerosi progetti nei quali si fondono black feminism, disability studies e femminismo “tradizionale”.

 

 

Ad aver attirato particolarmente la mia attenzione è Sins Invalid, un progetto nato con l’intento di regalare spazio ad artisti disabili, non dimenticando però di avere particolare attenzione per quelli di colore, queer o provenienti da un contesto economico svantaggiato, categorie con una lunga storia di emarginazione. Nato nel 2006 a San Francisco, le performance del gruppo sono un viaggio alla scoperta della sessualità da parte di “corpi disabili” con lo scopo di ridefinire termini come “normale” e “sexy”. Dai loro show nasce una visione sulla bellezza e la sessualità molto più fluida e democratica, aperta a tutti gli individui e a tutte le categorie sociali.

Una performance di Sins Invalid. Da sinistra a destra: Ralph Dickinson, Leroy Franklin Moore Jr. e seeley quest. Foto di Richard Downing.

Una performance di Sins Invalid. Da sinistra a destra: Ralph Dickinson, Leroy Franklin Moore Jr. e Seeley quest. Foto di Richard Downing.

Party instead of pathologizing!

La storia dei movimenti a sostegno dei disabili fisici e mentali è molto giovane. Il primo “pride” ha avuto luogo a Boston nel 1990. Dal secondo, tenutosi nel ’91, al terzo son passati ben 13 anni. Ora è il “pride” di Chicago a rivestire il ruolo più importante, ma da quest’anno anche la città di New York ha iniziato a dare il suo contributo alla causa.

In Europa si fa avanti a fatica e il passo decisivo verso il consolidamento di una cultura che tenga presente il tema della disabilità deve ancora venire. Dal 2013 Madrid e Berlino hanno la loro parata, dal 2014 Belfast. Ciò che la capitale dell’Irlanda del Nord sta cercando di fare a livello europeo è creare una rete di cooperazione con la quale si possa avere influenza anche sull’agenda politica della Comunità. Anche nel Vecchio Continente la premessa al Disability Pride parte dal rifiuto della patologizzazione e dalla creazione di nuovi standard, inclusivi invece che esclusivi, come ha dichiarato Sarah Triano, fondatrice del movimento di Belfast.

Per la particolare sensibilità verso le minoranze, i diversi orientamenti sessuali nonché la riappropriazione di termini inizialmente nati come dispregiativi, il “pride” di Berlino sembra essere quello più all’avanguardia.

Una foto del pride di Berlino

Una foto del pride di Berlino

Dando una prima occhiata al sito, si nota subito la varietà di lingue in cui si possono consultare le diverse voci: turco, inglese, francese, arabo, spagnolo. Inoltre, è possibile accedere ad una serie di video per persone sordomute. L’inclusione passa anche per il garantire l’accesso fisico alla parata, la creazione di uno staff ben preparato e nel programmare gli interventi dei “semplici” partecipanti. Interessante anche l’apertura alla comunità LGBTQ e ad una critica aperta verso il sistema psichiatrico nazionale. Da qui la scelta di usare il nome “Mad + Disability Pride”.


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