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Come siamo arrivati a parlare (così male) di ciò c...

Come siamo arrivati a parlare (così male) di ciò che è “gender”?

La teoria gender non esiste. Non esiste nell’accezione che da alcuni anni ci siamo abituati a considerare attraverso i media (in particolar modo con la crociata, inaugurata all’apertura della conferenza episcopale italiana del 2015 da monsignor Bagnasco, contro “l’indottrinamento gender nelle scuole”).

Un po’ di storia in questo senso non fa mai male. I gender studies nascono a cavallo degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso, come metodologia di approccio alle questioni di genere in ambito socio-culturale. Si tratta in realtà di un momento di formalizzazione accademica di un percorso che, sul versante femminista, si era già avviato diversi anni prima, ad esempio con la pubblicazione de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir.

Nella parte iniziale di quest’opera, analizzando la “predestinazione” femminile ad un percorso d’inferiorità rispetto all’uomo dal punto di vista della formazione, del lavoro, della famiglia e, più in generale della società, de Beauvoir individuava nell’appartenenza al genere femminile l’elemento discriminante nei percorsi identitari delle donne. Il genere influisce fin dalla più tenera età sul nostro rapporto con il mondo perché il mondo individua nel genere un elemento identitario “dato a priori”, immutabile e portatore di caratteristiche (inclinazioni, potenzialità, “destini”) che finiscono per incasellare l’individuo dalla nascita.

I women’s studies iniziano a decostruire il genere a partire dalla separazione sesso/genere: il primo è inteso come dato biologico, elemento di “categoria” all’interno del quale – fatte salve alcune eccezioni – ci si trova per casualità alla nascita, il secondo come elemento culturale, costituito dal patrimonio di caratteristiche attribuite dalle diverse epoche/società/culture al sesso di riferimento. Contemporaneamente, il femminismo rivendica per le donne – ma non solo – il fatto che il sesso alla nascita non corrisponda al genere e ai valori culturali ad esso connessi.

Donna non si nasce, lo si diventa. A partire dalla donna, i gender studies ampliano il loro spettro di analisi abbracciando le altre identità di genere: men’s studies, queer studies, transgender studies… I percorsi di analisi sono tanti e, solo a titolo di esempio, vanno dall’analisi della storia sociale delle donne (pensiamo al lavoro di Anna Bravo) alla rivisitazione del canone letterario a partire dalle autrici dimenticate (molto importante in questo senso il lavoro di Elisabetta Graziosi), per arrivare agli approfondimenti fra psicanalisi, cinema, letteratura e società, sempre in rapporto all’appartenenza di genere, di studiose come Teresa De Lauretis.

Ida Nasini Campanella, Raffaella al mare

Cito unicamente autrici italiane proprio per restare nei confini territoriali della polemica contro “il gender”. A partire dagli anni Novanta, infatti, gli studi di genere sono usciti dalle aule universitarie e dai circoli femministi per approdare nel mondo dell’educazione. Non si è trattato di una scelta d’indirizzo precisa, ma della pura e semplice conseguenza di una metamorfosi, in atto da decenni e sistematizzata dai movimenti di liberazione degli anni Sessanta e Settanta, nel modo di percepire l’identità di genere.

Se negli anni Cinquanta infatti “nascere femmina” o “maschio” implicava di necessità un percorso predeterminato che poteva prevedere piccole difformità ma mai una sostanziale devianza rispetto al canone, gli anni della contestazione avevano segnato il passaggio alla decostruzione dell’identità di genere e l’affermazione della libera scelta di percorso dell’individuo. Nasco femmina, ma posso – ad esempio – decidere di essere o meno madre, decidere che abbigliamento indossare, decidere quale lavoro svolgere e quale modello di vita abbracciare.

Allo stesso modo i maschi affrontano, in questi anni, una ridefinizione del loro ruolo sociale, liberandosi, pur solo parzialmente da alcuni stereotipi socialmente meno “inibenti”, ma certo non meno vincolanti dal punto di vista esistenziale. Con alcuni anni di ritardo anche l’identità transgender e queer ottiene il suo riconoscimento e, di conseguenza, la possibilità di essere “raccontata” e costruita/decostruita.

 

Costruire la propria identità: gli ostacoli odierni

Sono passati molti anni dalla contestazione ma ancora, in alcuni frangenti, il genere è considerato alla stregua del sesso biologico un dato assunto al momento della nascita. Dal fiocco rosa/azzurro esposto sulla porta di casa per accogliere il nuovo arrivato, ai giocattoli e libri orientati in modo univoco, entriamo nel mondo con uno “sguardo diverso” a seconda del nostro patrimonio biologico.

Questa diversità diventa discriminante nel momento in cui perpetua, generazione dopo generazione, i cliché di genere. La mamma che lava e stira, il papà che va al lavoro e “guadagna i soldi”. La zia che ci prepara la torta, lo zio che ci porta in moto. Il fratello che gioca a calcio, la sorella che fa danza. La cosiddetta “teoria gender” nelle scuole esiste da decenni ed è rappresentata da tutti quei percorsi educativi, formali e informali, mirati a rendere davvero libera e aperta la costruzione identitaria del sé.

I giocattoli e l’abbigliamento unisex sono “gender” in questa accezione, i libri che non trasmettono una visione univoca dei ruoli di genere sono “gender”, la maestra che fa scegliere liberamente a bambini e bambine che cosa vogliono fare – se il laboratorio di falegnameria e o quello di perline – è “gender”.

Alcuni dei giochi “gender” criticati dai detrattori di questo tipo di percorso educativo, non sono altro che la proposta plurale di diversi modelli, l’apertura degli orizzonti non alla diversità, ma alla normalità di ruoli fluidi nella società.

Non è “bello” che una bambina possa giocare a rugby con i compagni di squadra e magari diventare anche brava, ma è normale che ciascuno possa scegliere liberamente lo sport al quale dedicarsi. In questo quadro la maggior problematicità è stata rilevata non tanto nel caso di proposte educative maschili applicate a un “pubblico” femminile, ma di proposte femminili rivolte ai maschi.

Socialmente è ormai accettata la figura della donna in carriera (pur con molte riserve e disparità) e non risulta difficile per un genitore iscrivere la figlia a un corso di calcio. Questo perché, in sostanza, si considera un “miglioramento” della condizione femminile l’adesione ad abitudini e l’ingresso in contesti maschili. Il percorso inverso, l’abbassamento del maschio a ruoli “donneschi” è molto più difficile da digerire.

Il bambino che chiede di poter frequentare il laboratorio di perline è ancora guardato con un certo sospetto insomma. Anche rispetto al grande spauracchio della confusione fra i generi (a quali eventuali catastrofi dovrebbe condurre, data per assodata la crisi della famiglia e della società contemporanea a prescindere dal genere, ce lo stiamo ancora domandando) il timore maggiore è per la salute mentale e l’equilibrio dei bambini, maschi. Una bambina maschiaccio strappa un sorriso, un bambino in gonnella scatena il panico. E pensare che c’è chi, con un kilt addosso, ha governato un impero.


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