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“In prima linea”, cosa vuol dire essere inviate di guerra, in mostra a Torino

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Cosa significa essere una fotoreporter inviata di guerra? C’è uno sguardo differente, un approccio alla professione diversa da quella dei colleghi uomini? È più difficile per le donne fare questo mestiere? Prova a rispondere a questi complessi quesiti la mostra In prima linea. Donne fotoreporter in luoghi di guerra di Palazzo Madama a Torino, nata da un progetto di Andreja Restek – quasi per sfida, non senza una dose di rischio.

Restek è essa stessa una fotoreporter, e prima di questa mostra con numeri da record (oltre 20 mila visitatori e una proroga inaspettata di due mesi, fino al 16 gennaio 2017) non aveva mai organizzato mostre. A guidarla è stata l’urgenza e lo stimolo di tanti, lettori, amici e sostenitori, che glielo chiedevano. “Mi sono detta: vado a proporla a Palazzo Madama. Al massimo mi dicono di no”.

Andreja è nata in Croazia ma vive a Torino da oltre vent’anni: “Così ho fatto: ho portato l’idea e le foto delle mie colleghe al direttore di Palazzo Madama. Ha capito il potenziale e ha accettato”. Un’idea che ha vinto, nonostante venisse da una proposta completamente esterna, portando il coinvolgimento dell’Assessora alla cultura di Regione Piemonte Antonella Parigi. Sono 140 le testate che nel mondo ne hanno parlato: trattandosi di una prima mondiale, l’attenzione e il plauso sono arrivati massicci. Il catalogo della mostra è ora disponibile su Amazon.

L’obiettivo di Restek uno solo: dimostrare che il fotoreporter non è un lavoro maschile.

Noi fotoreporter con questa mostra vogliamo dire che non ci sentiamo diverse, anche se forse siamo troppo dentro e non capiamo se c’è una differenza di sguardo maschile/femminile. Probabilmente per le donne è più difficile inizialmente, perché la donna [in certi paesi NdR] è meno considerata e non vale niente, è uguale a un cane. Se sei donna certe foto non puoi farle, per delle regole stupide. Se le rispetti, però, conquisti la fiducia delle persone e hai possibilità di fare più foto.

Le 14 fotografe presenti alla mostre sono state selezionate da Restek per il loro curriculum, molto valido (vantano tutte prestigiose collaborazioni con le maggiori testate mondiali), e anche per la relazione che esiste tra loro. “Ci conosciamo, siamo in una rete di professioniste che si conoscono. Abbiamo intessuto una tela.” Erano proprio loro a esprimere la volontà di fare questa mostra e ci hanno creduto per prime.

Jodi Hilton, che ha raccontato la rotta dei rifugiati attraverso i Balcani, è stata la prima a dirle “Fallo!”. Le giornaliste provengono da tanti paesi diversi, a rappresentare più sfaccettature del mondo: è infatti possibile vedere, su una mappa presente in ogni pannello, oltre alla provenienza anche i luoghi coperti in azione.

Andreja

Andreja Restek

La convinzione comune, afferma Restek, è che in Italia non ci sia interesse per la politica estera e di conseguenza i giornali lascino pochissimo spazio ad essa; invece interessa molto, in particolare ai più giovani. I fotoreporter sono punti di riferimento per questo tipo di informazione, ma in Italia c’è sempre meno spazio per giornalisti interni alle redazioni e ci si appoggia di conseguenza a servizi esterni, ad esempio, a scapito della qualità del lavoro.

Perché per fare il fotoreporter di guerra la preparazione è la cosa più importante: l’esperienza e la conoscenza geopolitca e storica non si possono improvvisare, il rischio è di diventare “turisti di guerra”. Bisogna sempre tenere presente che si tratta soprattutto di un mestiere molto pericoloso e va tutelato di conseguenza; con un’adeguata copertura economica innanzitutto. “Fare gli inviati è un’attività costosa, ci vorrebbero più interni in redazione, per rendere i servizi più validi e vendibili.” 

“Sono molto severa con me stessa. Ho vissuto la guerra dei Balcani e so che grossa responsabilità è scrivere e documentare, perché le cose le si vede e si sa di cosa parla. Il contrario non è corretto.” Aggiunge: “Chi fa il fotoreporter di guerra non lo fa di certo per il World Press Photo. Tutto è talmente orribile che l’unico dovere è essere onesti. I giornalisti educano i popoli e la società, non bisogna mai dimenticarlo.”

La mostra è dedicata a Camille Lepage, unica delle 15 giornaliste a non essere più in vita. La fotoreporter è morta a 26 anni, nel 2014, durante un reportage in Repubblica Centrafricana. “Vogliamo dimostrare che è un mestiere difficile, pericoloso e se ne muore. E noi vogliamo essere rispetttate, ma non solo da morte. Non bisogna dimenticare, perché noi tendiamo a dimenticare troppo facilmente. Non vogliamo erigere statue, non le vogliamo, vogliamo dire anche noi ci siamo, siamo così, non siamo superwomen. Siamo qui, niente più e niente meno. Siamo uguali.”

Camille

Camille Lepage

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