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Tre ragazze provano a cambiare l’industria della moda con ILUUT

Chi ha realizzato gli abiti che possiedo? Chi ha coltivato il cotone, chi ha trasformato le fibre in filato, tinto il tessuto e cucito il tutto? Per molta parte del mio guardaroba, non saprei affatto come rispondere, ma immagino di non essere sola nella mia ignoranza.

Di recente, la discussione attorno a queste domande è cresciuta grazie al lavoro dell’organizzazione Fashion Revolution, nata nel 2013 all’indomani del tragico incidente occorso a Dacca (Bangladesh) dove morirono 1133 persone, e ci furono circa 2500 feriti a seguito del crollo del Rana Plaza, a un edificio commerciale di otto piani, che ospitava molte fabbriche tessili*.

Orsola de Castro, una delle fondatrici di Fashion Revolution ha spiegato che il movimento vorrebbe “costruire un futuro nel quale incidenti del genere non succedano mai più. Noi crediamo che conoscere chi fa i nostri vestiti sia il primo passo per trasformare l’industria della moda. Sapere chi fa i nostri vestiti richiede trasparenza, e questo implica apertura, onestà, comunicazione e responsabilità. Riconnettere i legami rotti e celebrare la relazione tra clienti e le persone che producono i nostri vestiti, scarpe, accessori e gioielli – tutto quello che chiamiamo fashion”.

Ma come si fa ed essere trasparenti in questo settore? Alcuni dei più grandi marchi di abbigliamento lavorano con migliaia di fabbriche alla volta, e alla fin fine non sanno davvero dire dove vengano realizzati gli indumenti che vendono. I passaggi di mano sono molti, il telefono è davvero senza fili e la conclusione è che coloro che lavorano alla filiera diventano invisibili. Chiedere trasparenza significa quindi poter dare dignità al lavoro di queste persone e riconoscerlo a tutti gli effetti. “Non puoi migliorare quello che non vedi” è solo uno dei tanti slogan motivazionali che abbondano sul sito di Fashion Revolution.

Tre ragazze europee hanno fatto propria questa etica di cambiamento e, decise a mandare un messaggio forte all’industria dell’abbigliamento, hanno creato Iluut. Iluut è un brand di abbigliamento sostenibile fondato da tre ragazze under 30, provenienti da diverse parti d’Europa: Elina Cerell (28 anni) da Helsinki, Silvia Stella Osella (30) da Milano, Vj Taganahan (25) da Londra. Tre sono anche gli aggettivi con cui viene descritto il marchio: sostenibile, trasparente e conveniente. L’impatto ambientale vuole essere infatti minimo, gli standard etici rigorosi ma il prezzo dei prodotti contenuto e accessibile.

La qualità è altissima e i materiali sono fatti per durare a lungo, le linee semplici rendono i capi dei passepartout per tutte le stagioni, senza il rischio di stancare o passare di moda. Sostenibilità, per il trio, significa soprattutto poter “tornare a comprare poco e meglio, vestiti fatti bene che durino negli anni”. Si possono lavare in lavatrice come delicati, e anche i colori sono fatti per durare.

Al momento ciò che hanno prodotto sono tre camicie e un vestito in denim. “La nostra scelta di partire dalla camicia non è un caso: è un capo trasversale, che si adatta a tanti stili e tante età diverse”, mi racconta Silvia, con la quale ho avuto modo di fare due chiacchiere. “Abbiamo dedicato molto tempo allo sviluppo dei modelli e al fitting, ovvero: provare i capi su noi tre, che siamo molto diverse, sulle nostre mamme, sorelle, amiche. Da commenti, osservazioni, misurazioni, abbiamo cercato di migliorare il cartamodello”.

A inizio settembre Iluut ha lanciato una campagna di crowdfunding tramite la piattaforma Indiegogo: qui è possibile dare il proprio sostegno all’iniziativa, scegliendo di pre-ordinare uno o più degli indumenti realizzati. La campagna chiuderà alla fine di questo mese.

Al momento in cui scrivo hanno raggiunto il 90% dell’obiettivo finale, 15.000 euro. Con questa cifra, spiega Elina, “sarà possibile realizzare altri capi e lanciare alla fine dell’anno il web store”. Nel caso in cui si riuscisse ad andare oltre i 20.000 euro, “si potrebbe già partire con la collezione invernale!”.

Il campionario è stato prodotto a Turku, in Finlandia, con grande soddisfazione di Elina, consapevole che nel suo Paese di origine la produzione tessile è quasi del tutto scomparsa. La produzione generale avverrà invece tra Helsinki e un paesino dell’Estonia, ma non perché vogliano abbattere i prezzi, bensì perché quel laboratorio “aveva una qualità molto più alta rispetto a tanti altri finlandesi che abbiamo visitato personalmente”.

Inoltre le impiegate “sono tutte donne e i loro stipendi sono del 40% più alti rispetto alla media estone: in questo modo, non solo si darà una mano all’economia locale, ma la produzione sarà sempre a portata di mano e avremo l’opportunità di avere un contatto diretto con le persone”. L’entusiasmo di Silvia mentre lo racconta è palpabile.

Da sinistra: Elina, Silvia, Vj

Da sinistra: Elina, Silvia, Vj

Queste tre ragazze si sono conosciute, di fatto, tramite internet. Elina, che lavorava da ormai tre anni come project manager presso una delle più importanti agenzie pubblicitarie della Finlandia, aveva caricato su YouTube un video in cui esponeva la sua idea di un marchio di abbigliamento sostenibile con uno stile moderno, e invitava chiunque la stesse ascoltando e condividesse la stessa passione e positività a contattarla per lavorarci assieme.

Silvia vide il video e le scrisse. Dopo aver collaborato con Zara, TopShop, Adidas come textile designer, aveva infatti voglia di mettersi alla prova e produrre un cambiamento reale nel settore in cui lavorava da tempo.

Vj, che nonostante la giovane età aveva già avuto modo fare esperienza con alcuni brand di alta gamma come Simone Rocha e Self Portrait Studio si è unita a loro poco dopo, aggiungendo al team un tocco di sperimentazione per lanciare all’industria dell’abbigliamento un messaggio ancora più forte e chiaro: sostenibilità e bellezza sono possibili, assieme.

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Dettaglio della camicia con puntini

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Comunicando via Skype e WhatsApp, condividendo moodboard su Pinterest, organizzando il lavoro via Meistertask e Facebook, incontrandosi appena possibile dal vero, il trio è riuscito a mettere in piedi un progetto solido e fresco. “Con una visione di base molto forte e condivisa le possibilità sono praticamente infinite”.

Consapevoli che quella della moda è la seconda industria più inquinante al mondo, hanno dedicato il primo anno e mezzo alle ricerche di mercato, fibre e partner lavorativi. Cercando fibre cresciute in Europa in modo sostenibile (perché al momento il mercato cui puntano è quello del Vecchio Continente), si sono imbattute nel Tencel, una fibra di cellulosa proveniente dall’Austria, e nel lino proveniente dalla Normandia, la cui produzione richiede un esiguo impiego d’acqua.

Il lino è stato impiegato per realizzare le camicie, il Tencel, assieme al cotone, per realizzare il vestito. “Ebbene sì, il vestito di iluut è fatto di legno!” scherza Silvia, per poi aggiungere, “ovviamente derivato da cellulosa riciclata o proveniente da foreste sostenibili certificate FSC e garantendo un processo di riforestazione”.

Ma un buon materiale non è sufficiente: avevano bisogno che risultasse anche confortevole una volta indossato, che non fosse fastidioso al contatto con la pelle. “Abbiamo evitato le fibre sintetiche ed investito su materiali sì più cari, ma di cui conosciamo la provenienza: fibre naturali, prive di agenti chimici dannosi e quindi adatte alle pelli più sensibili, inchiostri per la stampa a base d’acqua”. Addio al cloruro di polivinile, ritardanti di fiamma, formaldeide, piombo e mercurio che tanta parte fanno degli abiti venduti a basso costo nelle grandi catene, con lavoratori invisibili.

Gruppo Albini

Un’operaia del Gruppo Albini al lavoro

Anche trovare i fornitori giusti è stata un’impresa: “Per alcuni la sostenibilità è solo una questione di marketing: sostengono di produrre in maniera sostenibile perché sanno che per una certa fascia del loro target questo li mette sotto una luce migliore; ma, nella pratica, di sostenibile non hanno proprio niente”.

La trasparenza è stata ancora una volta criterio fondamentale per capire chi voleva mostrare il processo produttivo nella sua interezza, e chi invece aveva oscure ragioni per impedirlo. La ricerca le ha portate a conoscere GSL, un’azienda italiana che con macchinari di ultima generazione è in grado di stampare con inchiostri a base d’acqua (ogni stampa sui capi Iluut è disegnata a mano), e il Gruppo Albini, anch’esso italiano, che utilizza energia verde (fotovoltaica) nei suoi stabilimenti e realizza materiali di prima qualità. Le scelte che hanno fatto non sono le più economiche, ma eliminando gli intermediari e occupandosi loro della scelta e della comunicazione con i fornitori sono state in grado di abbattere diversi costi.

colori

Controllo colori nel laboratorio Albini Group

Il 5% del ricavato della vendita di ciascun capo verrà inoltre devoluto a un ente che promuove e sostiene l’educazione e la salute dei bambini nei paesi del terzo mondo, Pencil of Promise (PoP). Nata nel 2008, da allora ha contribuito alla costruzione di oltre 360 scuole, distribuito oltre 4000 borse di studio per i giovanissimi studenti e sostenuto, tramite la fornitura di risorse educative, oltre 500 insegnanti, realizzando anche impianti sanitari (bagni e lavandini) per impedire che i bambini siano costretti a saltare la scuola a causa di banali malattie.

Anche PoP ha fatto della trasparenza la sua bandiera: Elina non ha esitato a scegliere loro come destinatari della donazione. In futuro, dice, “speriamo di poter lavorare anche per promuovere progetti destinati specificatamente alle bambine e la loro educazione”.

Per ridurre gli sprechi, inoltre, gli scarti dei tessuti impiegati per la realizzazione degli abiti Iluut verranno inviati alle donne berbere del Marocco che lavorano con Carpet of Life, e qui troveranno nuova vita sotto forma di tappeti lavorati secondo tradizione, i “Boucherwi”.

In finlandese vento si dice Tuuli: le ragazze hanno scelto di usare questo nome per il loro marchio, capovolgendolo, a simboleggiare il cambiamento in positivo che vanno cercando. Volevano che la parola fosse in quella lingua perché, in fondo, era da lì, dalla Finlandia che era nato tutto. Il vento inoltre è un elemento leggero e impalpabile, che sembrava richiamare quell’idea di trasparenza su cui puntavano. In bocca al lupo!

Per seguire l’avventura di Iluut: account Instagram e sito ufficiale.

 


*In seguito diversi enti e gruppi di difesa come Industrial Global Union lanciarono campagne a tutela dei diritti dei lavoratori del Bangladesh, reclamando una solida riforma del lavoro per tutto il Paese. Dei 29 marchi identificati come aventi i prodotti provenienti dalle fabbriche del Rana Plaza, solo 9 hanno partecipato alle riunioni tenutesi nel novembre 2013 per concordare una proposta di risarcimento alle vittime. Diverse aziende si sono rifiutate di firmare, compresi Walmart, Carrefour, Mango, Auchan e Kik. L’accordo è stato firmato da Primark, Loblaw, Bonmarche e El Corte Ingles. Nel marzo del 2014, solo 7 dei 29 marchi avevano contribuito a finanziare il fondo fiduciario dei donatori del Rana Plaza, sostenuto dalla Organizzazione internazionale del lavoro (Wikipedia)


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  1. Anna

    7 Marzo

    molto interessante.

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