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Da bambina bramavo gli occhiali da vista

Da bambina bramavo gli occhiali da vista

di Francesca Bellei

Ora che ho perso la vista, ci vedo di più.
(Nuovo Cinema Paradiso, 1988)

Il 2001 non è stato solo il primo anno del nuovo millennio, ma anche l’ultimo della mia infanzia. Mi preparavo, in quell’anno, a lasciare le scuole elementari. A parte poche eccezioni, avevamo avuto dei maestri fantastici, che ci incoraggiavano a scriver storie e a creare costumi di carnevale riciclando bicchieri di plastica. Allestivano recite, cori, sfilate. Ci insegnavano a piantare gli alberi, e ci lasciavano scambiare le carte dei Pokémon a ricreazione.

Ma tra le tante cose che i nostri maestri organizzavano per noi, c’erano anche le temutissime visite oculistiche, che avrebbero determinato chi tra di noi sarebbe diventato Quattrocchi e chi no. Una volta l’anno, puntuale come un orologio, arrivava l’Oculista. Lo sistemavano in una stanza gelida e spoglia che per il resto dell’anno fungeva da infermeria, e venivano a chiamarci in classe uno alla volta. Dall’aula si sentivano i passi della bidella che si avvicinava per portarci dall’Oculista. Tic-toc, tic-toc. Non c’era scampo.

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Illustrazione di Benedetta Vialli

Anno dopo anno, sempre di più tra i miei compagni tornavano da quella stanza cupi in volto, e silenziosi. E gli altri scoppiavano a ridere. “HA! Quattrocchi! Diventerai quattrocchi! Buuu!” La sfortunata o lo sfortunato di turno si sedevano senza dire nulla, pensando con orrore a quando sarebbero dovuti ripresentarsi in classe con gli occhiali; da quel momento in poi, le prese in giro sarebbero non solo raddoppiate, ma sarebbero diventate permanenti.

I già-occhialuti godevano, specialmente se si trattava di qualcuno che li aveva presi in giro fino al giorno prima, ma proprio in generale: finalmente anche i normali, avrebbero saputo come ci si sente ad essere presi in giro tutti i santi giorni. Osservavano queste cadute dallo stato di grazia con un sorrisetto compiaciuto che sembrava voler dire: beh, mica può toccare sempre e solo a noi. Per il neo-miope, quindi, non c’era solidarietà né da una parte né dall’altra. Tanto peggio per la neo-miope, la quale sapeva benissimo che avrebbe anche dovuto fare i conti con anni di “saresti tanto carina senza!” Tanto valeva cominciare fin da subito la campagna pro-lenti a contatto.

Io avevo assistito a queste scene ogni anno, eppure, quando cominciai la quinta elementare presi una decisione tanto irrevocabile quanto folle: volevo gli occhiali.

Chiariamo una cosa: non è che io fossi così popolare da sperare di evitare le prese in giro. Anzi. Nonostante avessi parecchi amici, la mia reputazione di secchiona era già fermamente stabilita. Per farvi capire le dimensioni del problema, quando componemmo dei temi da regalare ai nostri maestri dopo gli esami di quinta, ben più di una persona colse l’occasione per rimpiazzare le classiche smancerie, probabilmente composte dai genitori (mi mancherete tantissimo, ci avete insegnato tutto, bla bla…), con delle lamentele ufficiali sulla mia secchionaggine:

-Perché fate sempre leggere Francesca Bellei?

– Le recite sarebbero state meglio senza Francesca Bellei che faceva sempre le parti principali.

Eccetera.

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“Volevo essere Secchiona” – Illustrazione di Benedetta Vialli

Io sapevo che gli occhiali non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione. Ma – e questa è la cosa fantastica di essere stata una ragazzina strana – non me ne fregava assolutamente nulla. Io volevo essere Secchiona, con la esse maiuscola. Volevo andare al liceo, all’università. Ero ambiziosa, volevo scrivere un libro. Il tipo di donna che avrei voluto diventare portava gli occhiali, è chiaro.

Quando entrai nella stanzetta dell’oculista, ero pronta per la performance di una vita. Lessi bene tutte le prime righe, quelle più grandi. Quando arrivammo alla penultima feci un errore solo, confondendo due lettere molto simili. All’ultima ne sbagliai una, poi mi corressi. Poi ne sbagliai un altro paio. L’oculista scosse la testa. “Mi dispiace, signorina, qua ci vogliono gli occhiali.”

Io mi finsi disperata. Con lui, con le compagne, con mia madre. Pensavo sarebbe stato troppo sospetto se mi fossi mostrata giubilante. Andammo dall’ottico a scegliere un modello. Feci finta di non guardarli nemmeno, ed invece riuscii a farmi comprare il paio di occhiali più osceno di tutto il negozio: lenti sottili rettangolari, angoli smussati, montatura fucsia. E la catenella!

Non dimenticherò mai il suono delle risate dei miei compagni quando entrai in classe con gli occhiali per la prima volta. Nell’aula minuscola, il fragore era come quello di un’onda gigantesca. Si levò un coro polifonico di “Secchiona!” e “Quattrocchi!”. Io andai a sedermi al mio banco, mentre il maestro cercava invano di dirigere quest’orchestra ribelle, cercando di non far vedere quanto fosse grande il mio sorriso.

Seguirono mesi di mal di testa atroci, ma ci vollero due anni prima che smettessi di portarli.

Alle medie avevo ancora meno amici. Il mio fisico da bambina, insieme al fatto che scrivevo pessime poesie, ed al mio disinteresse nei confronti del sesso opposto (= scarsa disposizione a farmi palpeggiare il sedere a ricreazione) mi avevano lentamente alienato sia dalle mie compagne che dai miei compagni.

Gli occhiali cominciarono a rimanere in fondo allo zaino sempre più spesso. Mi feci regalare delle orribili minigonne scozzesi (grazie Britney), lucidalabbra alla papaia, deodoranti tossici. Mia madre (saggia donna) si rifiutava di comprarmi Cioè, quindi leggevo quelli usati delle due amiche che m’erano rimaste. Ascoltavo Laura Pausini, e cantavo a squarciagola: “E lo aspetti ad un telefono/il gomitolo nell’angolo.” Insomma, ero messa male.

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Illustrazione di Benedetta Vialli

Pareva che, per quanto mi sforzassi, non riuscissi a fingere di essere una persona che non ero. Decisi che non avrei fatto il liceo più vicino, ma il più lontano possibile, a Roma. Via Laura Pausini, benvenuti Led Zeppelin. Via le minigonne, benvenuta borsa di canapa a fantasia arcobaleno. Via il lucidalabbra, benvenute Lucky Strike rosse. Una forma di conformismo scambiata per un’altra.

Verso la fine del liceo mi si cominciò ad abbassare la vista per davvero. Io non stavo più nella pelle. Come se di lì a poco avrei rivisto un grande amore che pensavo perduto. Era il 2008, quindi con caratteristico ritardo sulle mode scelsi un paio di Ray-Ban Wayfarer neri giganteschi. Volevo proprio che mi coprissero la faccia.

Quando arrivai in classe qualcuno me li sfilò, sospettoso.“Di’ un po’: ma sono veri? O sei una di quelle che si mette quelli finti solo per fare la fighetta?” Era cominciata una nuova era.


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