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Cosa vogliono dire “moda lenta” e “moda veloce”?

Non si è mai parlato tanto di bio, di chilometri zero, di slow food, come nell’ultimo anno. Complice l’ imminente Expo a tema alimentazione, il successo del movimento di Carlo Petrini, la diffusione dei GAS, l’avvento di Eataly a Milano che occupa lo spazio che fu del teatro Smeraldo, i NaturaSì che spuntano come funghi. I dati parlano chiaro: secondo un rapporto pubblicato dal Sinab (Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica) nel settembre 2014, nei soli primi 5 mesi dell’anno gli acquisti domestici di cibo biologico confezionato presso la GDO sono aumentati del 17.3% rispetto ai primi cinque mesi del 2013. Si fa un gran parlare di qualità, di filiera corta, di benefici per la salute, per l’ambiente, per i produttori e quando arriverà Expo il chiacchiericcio aumenterà sempre di più.

Questi trend possono avere conseguenze decisamente positive sui comportamenti e i consumi individuali, ma il desiderio di conoscere tutto il conoscibile sul metodo di produzione, sulla qualità delle materie prime e sulle persone che hanno contribuito alla creazione di un prodotto non riguarda solo il cibo. Un altro settore merceologico cui prestare attenzione in relazione alla sua filiera è quello del tessile, dell’arredamento e in particolare della moda.

Negli ultimi mesi la compagnia svedese H&M ha inaugurato nuovi negozi a Milano, a Trento e a Treviso. Il marchio low cost, insieme ad altre etichette famose in Italia e Oltremanica come Zara, Mango, Topshop e Primark promuove il cosiddetto “fast fashion”, che supera il binomio “Primavera-Estate”/”Autunno-Inverno” e propone decine se non centinaia di collezioni all’anno.

Provate a entrare in un negozio H&M oggi e ritornate tra un mese: difficilmente ritroverete appesi alle grucce gli stessi abiti che avevate adocchiato la volta precedente e questo meccanismo, unito ai costi relativamente bassi dei prodotti, innesca spesso acquisti affrettati dettati dall’istinto e dal desiderio di sottrarre alla vista di altr* contendenti un maglione che forse non ci interessa poi tanto. Il fast fashion non coinvolge soltanto i negozi: basta un’occhiata a giornali di moda, fashion blog, siti tematici e ricerche di mercato per scoprire che ogni mese (se va bene!) ha un nuovo trend e tutto serve, ovviamente, a farci tornare in negozio il più spesso possibile, per stare al passo con tutta questa velocità.

L'inaugurazione di un nuovo flagship store H&M a Milano, 10 dicembre 2014

L’inaugurazione di un nuovo flagship store H&M a Milano, 10 dicembre 2014

Altre “controindicazioni” del fast fashion sono i vestiti di scarsa qualità venduti durante i saldi o negli outlet (spesso prodotti da fornitori completamente diversi e con materiali più scadenti di quelli previsti per le “normali” collezioni) e la qualità volutamente bassa di molti tessuti e cuciture, destinati a sbiadire/strapparsi/scucirsi/emanare cattivi odori dopo pochi lavaggi. Il tutto ad un unico e semplice scopo, sempre lo stesso: farci tornare in negozio il più spesso possibile.

Ultimo punto ma non meno importante: il costo ambientale e umano di simili produzioni. I mercati dell’abbigliamento più ampi nel mondo sono al momento Brasile, Cina, Italia, Giappone e Stati Uniti, mentre i mercati per cui è prevista la più grande crescita di qui al 2018 sono Tanzania, Bangladesh, Etiopia, Cambogia e Yemen, secondo uno studio pubblicato a novembre.

Il Bangladesh, le cui esportazioni di abbigliamento hanno toccato a giugno 2013 quota 27.02 miliardi di dollari americani, ha ricevuto molte attenzioni da parte di media, associazioni e brand mondiali dopo il crollo del Rana Plaza a Dacca, dove rimasero uccise 1.129 persone. Il Guardian ha dedicato un articolo interattivo al disastro e al costo umano della produzione di abbigliamento a Dacca, diviso in capitoli. Tra un capitolo e l’altro si può monitorare quanti minuti si stanno impiegando per la lettura del pezzo e quanto la protagonista del racconto, una giovane operaia sopravvissuta al crollo, ha guadagnato in quel lasso di tempo.

guardian interactive longform

Uno screenshot del longform “The shirt on your back” – Fonte: The Guardian

Alcuni tra i maggiori produttori al mondo si sono riuniti nel 2013 (in due gruppi separati e rivali tra loro, come riportato dal New York Times) per garantire la messa in sicurezza di alcune fabbriche del Bangladesh e hanno completato i controlli nell’ottobre 2014. La messa a norma di impianti elettrici, idrici, di sicurezza e la stabilità degli edifici sono elementi fondamentali da monitorare, ma è importante ricordare che anche a norma di legge il salario minimo di un operaio (molto spesso un’operaia: in Bangladesh il 90% degli operai di questo settore è donna) del settore tessile bengalese è di 68 dollari al mese, l’equivalente di 54.82 euro.

In Vietnam la cifra varia tra i 90 e i 128 dollari a seconda della regione ed è di 100 dollari in Cambogia. Come riportato da Clean Clothes, gli operai cambogiani del settore tessile sono scesi in piazza spesso, anche a costo della vita, tra il 2013 e il 2014 e sono tornati a protestare lo scorso settembre per chiedere un aumento del salario da 100 a 177 dollari/mese, perché il loro stipendio equivale all’incirca a un quarto di quello che dovrebbero guadagnare per avere una qualità della vita accettabile.

La delocalizzazione della produzione non è una novità e viene applicata dalle industrie in molti settori: quello dell’automobile, degli elettrodomestici, delle macchine fotografiche, dei computer, degli smartphone. L’elemento che distingue il settore della moda e in particolare quello del fast fashion dagli altri è quello della volatilità dei trend che lo riguardano e della crescente riduzione del ciclo di vita dei prodotti. Per capirci, salvo che una persona abbia una particolare mania o sia un collezionista, non comprerà tanti computer, tanti eBook reader, tanti frullatori, tante librerie quante il mercato gli suggerirà a seconda della stagione, ma di norma acquisterà un numero di prodotti proporzionale al proprio, effettivo fabbisogno. Il fast fashion invece ha l’obiettivo dichiarato non solo di far acquistare tanti capi per volta, ma anche di ottenere un ritorno frequente del cliente nel proprio punto vendita, più volte l’anno.

Esistono delle alternative, aggregabili sotto il cappello del cosiddetto slow fashion movement: acquistare da artigiani per favorire i prodotti locali e il commercio equo e solidale, preferire gli abiti di seconda mano e il vintage e donare quelli che non si utilizzano più, comprare abiti prodotti nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, cercare di adottare uno stile che trascenda i trend del momento e favorire tessuti resistenti e di qualità, in modo da diminuire il ritmo degli acquisti e comprare meno abiti, meno spesso, in modo da risparmiare soldi e sprechi. E quando si hanno tempo, strumenti e capacità, darsi al fai-da-te: ricavare abiti nuovi da vestiti vecchi, personalizzare capi anonimi per renderli unici. Come fa la blogger Annika Victoria di The Pineneedle Collective, che vi insegna i suoi magici trucchi con tutorial belli, chiari e coloratissimi.

La definizione di “slow fashion” giunge a noi dal non lontano 2008, quando la consulente di design sostenibile Kate Fletcher usò queste parole per definire un tipo di produzione e consumo basati su un concetto in contrasto col “fast fashion” e il consumismo crescente, in particolare per quanto riguarda obiettivi e valori.

Qualità piuttosto che quantità, innanzitutto. Una produzione minore e che dia più valore alle produzioni locali avrebbe un impatto positivo sull’ambiente: tra le altre cose si ridurrebbero i trasporti di merci e l’utilizzo di pesticidi, detersivi e prodotti per la pulizia. La produzione locale non basta, anche la fonte delle materie prime è importante: favorendo quelle locali, diminuisce ancora di più il loro peso su emissioni di CO2 e altri fattori inquinanti.

Il rispetto per le persone: partecipare a scambi, mercati, cooperative, associazioni per i diritti dei lavoratori del tessile e sottoscrivere codici di condotta può aiutare a garantire un trattamento equo e umano per le persone che producono i capi e il tessuto con cui vengono realizzati. Secondo il movimento è importante che in ogni area del mondo si aiutino le comunità locali a costituire imprese su piccola scala per produrre beni di consumo che possano anche giovare alla comunità del posto e non costituire unicamente materiale per esportazioni a basso costo per i continenti più ricchi.

Il fast fashion ha probabilmente una vita molto lunga davanti a sé e tanti produttori non hanno la minima intenzione di rallentare il ritmo della produzione. Detto questo, consumatrici e consumatori possono scegliere di non chiudere gli occhi. E di adottare uno stile più “slow”, per salvaguardare sia il pianeta che i diritti umani (e alla lunga, anche il portafoglio).


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