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La moda passa, il pregiudizio resta

La moda passa, il pregiudizio resta

Il mio desiderio è comprare due librerie Billy dell’Ikea: una da riempire con i grandi classici della letteratura del Novecento, l’altra per appoggiarci sopra le numerose paia di scarpe che già possiedo e il cui numero non accenna a diminuire. Quando parlo di questa mia aspirazione mi sento sempre dire: “Ma come? Una ragazza come te che perde tempo dietro alle scarpe?”.

Ebbene sì, e non solo alle scarpe: anche alle borse, alle gonne a ruota e longuette, alle giacche sartoriali, ai pantaloni e alle magliette (principalmente dei gruppi che mi piacciono). Sembra incredibile, lo so, ma si possono avere contemporaneamente un cervello e un paio di scarpe tacco dodici ai piedi.

A me la moda – termine che qui come in tutto il resto dell’articolo useremo nell’accezione di tutto ciò che riguarda l’abbigliamento – piace talmente che ho iniziato a considerarla come una possibile carriera. Ed ogni volta che lo dico, la solfa è sempre la stessa: “sprechi il tuo talento, ma allora perché fai l’università, sei troppo intelligente” e bla bla bla.

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La moda investe tutti gli aspetti della nostra vita senza che noi ce ne rendiamo conto. È una cosa serissima, che può modificare e condizionare il modo in cui vediamo il mondo e come il mondo vede noi. Tutti i popoli della Terra usano o hanno usato i tipi di abbigliamento più vari per diversificare ed identificare gerarchie o ruoli sociali, condizioni familiari, sentimenti o stati d’animo. Le prostitute dell’antichità portavano nastri rossi per essere riconosciute, i sacerdoti hanno un complesso cerimoniale per i paramenti che muta in base alla festività da osservare e fino a pochi decenni fa il vestito nero era riservato esclusivamente alle vedove e alle persone in lutto.

Questi sono solo alcuni esempi storici del grande potere comunicativo dei vestiti. Nella società contemporanea questo potere è diventato forse ancora più invasivo e sottile: i vestiti possono rivelarci qualcosa della personalità di ciascuno, dirci quale siano il suo stile di vita o le sue attitudini. La moda non è una cosa stupida, non si riduce ad abbinare bene una maglietta e una gonna (anche perché nessuno può decidere per noi in cosa consista questo “bene”), ma allora perché quando dico che vorrei lavorare in questo campo la gente mi prende per una sorta di Paris Hilton svampita che pensa solo alle borse? La soluzione è semplice: la moda è una “cosa da donne” e quindi, come tutte le cose che interessano le donne, è stupida, frivola, inutile, superficiale.

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Dietro a questa demonizzazione della moda sta un sessismo soft che però è sintomatico della percezione della donna. Dietro a etichette come “buon gusto”, “femminilità”, “eleganza” si nasconde la convinzione che la donna abbia un cervello sufficiente a riconoscere solo un bel paio di pantaloni. Non a caso, un uomo che cura maniacalmente il suo abbigliamento o passa molto del suo tempo a scegliere e comprare vestiti è definito elegante e raffinato, mentre una donna che fa la stessa cosa è semplicemente superficiale.

Non possiamo negare che i vestiti siano oggetti, tuttavia dobbiamo riconoscere che sono oggetti importanti, simboli, talvolta feticci, che assumono significati personali molto più profondi di altri oggetti di cui ci circondiamo. Il fatto che una donna aspiri ad occuparsi di questi oggetti dimostra quindi la volontà di occuparsi di uno degli aspetti centrali della vita sociale di ciascuno, ed è un lavoro che richiede studio, impegno ed intelligenza. Due esempi “nostrani” che dimostrano quanto sia normale e consueto essere donne brillanti e operare nel settore moda sono le vite e le carriere di Miuccia Prada e Franca Sozzani.

Miuccia Prada è CEO e direttrice creativa dell’omonima maison, che da una piccola azienda di pelletteria in galleria Vittorio Emanuele II a Milano è diventata, grazie a lei, una delle più importanti aziende di moda italiane nel mondo. Laureata in scienze politiche, ha studiato recitazione presso il Piccolo Teatro, è la terza donna più ricca d’Italia e risulta nell’elenco delle 100 persone più influenti al mondo secondo il Times.
Oltre ad essere una stilista incredibilmente talentuosa, è anche una fervente appassionata d’arte e ha fondato, con il marito Patrizio Bertelli, la Fondazione Prada, un progetto che promuove l’arte contemporanea e che presto aprirà un museo a Milano.

Franca Sozzani è la direttrice di Vogue Italia e direttrice editoriale del colosso Condé Nast per l’Italia. Laureata in Lettere e Filosofia con una tesi sulla filologia germanica, ha scritto diversi libri ed è da più di vent’anni ambasciatrice dei programmi alimentari dell’ONU.

Le signore della moda italiana (e non) sono i miei esempi: intelligenti, audaci, colte, con centinaia di vestiti nell’armadio. Quindi sì, si può leggere e conoscere profondamente l’opera omnia di Hemingway e collezionare borse, senza che la cosa risulti assurda.

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Miuccia Prada (a sinistra) e Franca Sozzani (a destra)

 


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  1. DaRko

    28 Aprile

    Grazie Jennifer! Articolo perfetto!

  2. Hime

    28 Aprile

    Articolo perfetto, da incorniciare. La moda non è semplicemente vestiti. E’ anche arte, cultura e ispirazione. Anche se i nostri media mainstream (penso a tutti i “meravigliosi” programmi di Real Time) ne offrono un’immagine molto stereotipata e piatta, da ghetto rosa…

  3. Serena

    29 Aprile

    Esattamente.
    E aggiungo:
    “Fashion is one of the very few forms of expression in which women have more freedom than men. And I don’t think it’s an accident that it’s typically seen as shallow, trivial, and vain. It is the height of irony that women are valued for our looks, encouraged to make ourselves beautiful and ornamental… and are then derided as shallow and vain for doing so. And it’s a subtle but definite form of sexism to take one of the few forms of expression where women have more freedom, and treat it as a form of expression that’s inherently superficial and trivial. Like it or not, fashion and style are primarily a women’s art form. And I think it gets treated as trivial because women get treated as trivial.”

    Greta Christina, Fashion is a Feminist Issue http://freethoughtblogs.com/greta/2011/09/02/fashion-is-a-feminist-issue/

  4. Alfonso

    18 Gennaio

    D’accordo con alcune intuizioni, meno con altre.

    Che l’abito sia feticcio è tesi che condivido appieno. L’ultimo capo indossato al solo fine di non rimanere nudi credo risalga ai tempi dell’uomo di neanderthal. Senza saperne troppo sull’argomento, azzardo ad ipotizzare che probabilmente già a quei tempi c’era una nozione -se non di stile- quantomeno di significazione connessa all'”abito”.

    Sarebbe stato più interessante leggere -da chi bene o male bazzica il settore- qual è o quale potrebbe essere il significato o la radice del pregiudizio dei nostri tempi che lega in rapporto biunivoco la cura dell’immagine esteriore (nella fattispecie dell’abbigliamento) a pochezza/superficialità. O, ancora, e ancora sull’onda della teoria abito-feticcio: quale significato assuma oggi il vestire un capo invece che un altro ai tempi dei vestiti con su stampe di citazioni, motti e via dicendo (fenomeno degli ultimi se non ultimissimi tempi, tra l’altro).

    Non credo, invece, che il pregiudizio abbia una matrice sessista (ed in chiave esclusivamente misogina). Come per le donne, anche per gli uomini il tempo speso a scegliere un abbinamento è inversamente proporzionale all’acume accreditatogli. I giudici che emettono queste stesse sentenze difendono, di solito, un’anacronistica -e ipocrita- concezione del vestire in base a criteri di comodità e/o utilità, in osservanza alla legge inversa di cui prima. La puntata che Pif, ne Il testimone, ha dedicato al mondo della moda, è un esempio più chiaro delle formule proporzionali approntate in questo commento.

    Il problema di questo pregiudizio sta -almeno in questo articolo- nel provare a scalzarlo fornendo le stesse rassicurazioni che i giudici di cui prima si aspetterebbero di ricevere. E mi riferisco al modo in cui sono state citate le biografie di Miuccia Prada e Franca Sozzani. Non credo che a legittimare il loro impegno nel mondo della moda (se di legittimazione ha bisogno) siano i traguardi -pregressi o conseguiti in età avanzata- non connessi al mondo della moda. Che la prima abbia conseguito una laurea in scienze politiche, abbia frequentato un corso di teatro e guadagnato un mucchio di soldi e che la seconda abbia discusso una tesi in filologia germanica non aggiunge e non toglie niente ai fini dell’argomentazione principale.

    Senza dubbio a loro fa onore (a me invidia), e senza dubbio questi stessi traguardi hanno contribuito -umanamente- a fare di loro due le icone che sono diventate, ma non vedo cosa abbiano direttamente a che vedere con la moda.

    E’ l’essere sottomessi al pregiudizio comune che svilisce la moda. Mi avrebbe fatto piacere leggere, piuttosto, da estraneo a questo mondo, perché col loro lavoro la moda l’hanno cambiata. O meglio: in che modo hanno fatto cultura facendo moda. Che può sembrare scontato per chi ci sta dentro, ma per noialtri non lo è per niente.

    Ecco, forse questo è un altro spunto di riflessione che a me profano piacerebbe fosse approfondito da un addetto ai lavori: il pregiudizio verso la moda sta forse nel fatto che la moda sia un mondo chiuso ed esclusivo, che non vuole intrusi. Quando lo fa solo con le passerelle, rischia di mostrare una sola faccia della medaglia.

    Una piccola -e ultima- nota più decisamente polemica, va infine direttamente all’autrice: non è, a mio parere, indizio di scarso acume interessarsi di moda, ma di certo non rema a suo favore l’auto-citazione dei complimenti ricevuti.

    Alfonso,
    che sceglie accuratamente i maglioni e non vuole per questo sentirsi giudicato

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