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Di misoginia, maschilismo e altre nevrosi (culturali): intervista a Costanza Jesurum

Il sessismo non è mai sintomo di qualcosa di buono: non è solo una questione di ingiustizia sociale, ma anche qualcosa che provoca conseguenze deleterie per la salute mentale, che lo si subisca o lo si perpetui (lo conferma anche un recente studio statunitense, che affermerebbe come la tendenza alla conformità alle norme maschili di certi individui aumenti il riscontro di disturbi mentali e rifiuto di cercare un aiuto adeguato per risolverli). 

Mi sono spesso chiesta se per maschilismo e sessismo esistessero dei legami con delle patologie psicologiche: come è comprovato che gli individui in generale (e le donne in particolare) risentano degli effetti del maschilismo, non solo nella società, così anche nel privato, salute mentale in primis. Ma in che misura questa percezione è corretta? Per questo mi sono rivolta a Costanza Jesurum, psicoterapeuta e autrice di libri come Manuale antistalking. Come difendersi dagli stalker (ed. Il nuovo melangolo, 2014 e del più famoso Psicopatologia della vita quotidiana (ed. minimum fax). Spesso chiamata ad esprimersi su giornali e riviste in merito alle questioni di violenza di genere, è nota anche per il suo blog bei zeuberei e perché è molto attiva su Facebook, dove commenta fatti di attualità dal punto di vista della sua professione, cercando di renderlo accessibile a tutti con massicce dosi di ironia.

L’abbiamo intervistata per chiarire quei punti caldi a monte di molte problematiche che intrecciano psiche, femminismo e problemi come discriminazione e la violenza di genere. Cominciamo la nostra discussione con Jesurum cercando dipanare la questione di come discipline psicologiche si siano storicamente poste nei confronti della donna.

Le primissime teorie freudiane, che vengono studiate al liceo come fondamenti della psicologia moderna, relegavano le donne a una posizione di subalternità (la cosiddetta “invidia del pene”). Questa posizione ha ancora validità nella pratica delle discipline psicologiche/psicoanalitiche di oggi? La psicologia è ancora (o è mai stata) una disciplina ostile alle donne?

Costanza Jesurum: Sono molto affezionata alle critiche del femminismo alla psicologia, ma la psicoanalisi e la psicologia non sono mai state contesti ostili alle donne. Le associazioni analitiche sono anzi quelle che hanno fatto emergere da subito figure carismatiche che hanno condizionato e continuano a condizionare la prassi cliniche. Il grande scisma che ha diviso il mondo post-freudiano – per fare solo un esempio – è stato l’esito di un fantastico duello di prime donne,  Melanie Klein e Anna Freud, che si sono sfidate teoricamente in celebri controversie.

(Nota: Jesurum si riferisce alle teorie contrastanti delle due psicoanaliste, che dibattevano dell’efficacia dell’utilizzo della “tecnica del gioco” nell’analisi dei bambini di 2 – 3 anni.)

Le teorie di prima generazione erano, è vero, profondamente storicizzabili, e il loro difetto era una pretesa (da parte dei critici odierni, ndr) di astoricità, non una loro possibile validità relativa.  L’invidia del pene è un costrutto assolutamente inadeguato per parlare delle donne, ma ancora molto funzionale quando ci si riferisce a quelle donne che proiettano il proprio senso di potere e di efficacia esclusivamente sul padre e sul maschile, perché quello è l’alfabeto condiviso del loro mondo di appartenenza, donne che magari vengono da contesti familiari fortemente conservatori, o con sfumature misogine.  In quel caso allora è plausibile che organizzino un malessere che può essere metaforizzato con l’invidia del pene e che può venir superato con l’esperienza della genitorialità. Allo stesso tempo, c’è stato certo un lungo travagliato passaggio di donne professioniste, che già dagli esordi della psicoanalisi occupavano una posizione di leadership, e la traduzione di questa esperienza con una concettualizzazione del femminile come intellettualmente capace e impegnato che è avvenuta relativamente dopo.

Mi piace sempre ricordare in questo ambito, il bellissimo contributo fornito da Emma Jung, che forse è stata la prima a fornire un brillante saggio (ndr: Animus e Anima, 1969), per molto tempo scarsamente preso in considerazione, sulla necessità per la salute mentale di una donna di realizzare la sua parte razionale e intellettuale, in una parola “professionale”.  

Illustrazione di Carol Rollo

Nel Suo blog, in cui c’è una sezione “femminismo” e in cui viene dato largo spazio alle questioni legate a violenza di genere, femminicidio, stalking e psicopatologie derivate, fa il punto sul concetto di maschilismo e misoginia. Cito: “Nevrotici siamo tutti e il maschilismo è una nevrosi culturale come un’altra.Come si caratterizza questa nevrosi culturale in Italia? A proposito di maschilismo, nello stesso post, afferma: “Il maschilismo risponde a un’idea politica della gestione dei ruoli che può essere osteggiata politicamente oppure no, dove le persone possono vivere infelicemente ma anche molto accomodate e felicemente – mentre la misoginia risponde a una grave patologia, che produce comportamenti invariabilmente patologici e violenti”. Che ruolo hanno, di contrasto, il femminismo o i movimenti femministi nel contrastare il maschilismo?

Beh, se non un ruolo capitale – certamente determinante. Non capitale perché il primo contrasto che viene al maschilismo deriva dall’evoluzione dei consumi e dei bisogni, e dall’incremento delle risorse. Allo stato attuale dell’arte, uno stipendio non basta a mantenere una famiglia, e siccome il potere segue i soldi, la necessità del lavoro della donna implica la domanda della ridistribuzione del potere in casa.

Ciò non toglie che questo spesso non basti e che se si riduce il piano inclinato dell’asimmetria tra i generi, non vuol dire che esso sparisca del tutto. Funzione del femminismo è mostrare a chi ha occhi per vedere dove c’è questo piano inclinato, e che eventualmente raddrizzarlo non implica una mortificazione della coppia (ndr: eterosessuale), ma soltanto una sua mutazione, e volendo anche un suo miglioramento. In psicologia è noto per esempio quanto un maggior benessere sia correlato a una maggiore flessibilità, capacità di muoversi tra diversi modi di comportarsi e di ricoprire diversi ruoli. Parallelamente si può dire che nella coppia un buon funzionamento è garantito dalla flessibilità e dall’esplorazione di possibilità comportamentali nelle parti.

A proposito di femminismo: non sempre nei Suoi post è connotato positivamente. “C’è un problema che il femminismo alle volte esaspera piuttosto che risolvere e che ha a che fare con la coniugazione della sessualità con il resto dell’identità, ma direi che ormai sia un’esasperazione comune.” Qual è la Sua definizione di femminismo? In cosa è risultato manchevole nell’ottenere i suoi obiettivi? Il femminismo può fare ancora qualcosa per le donne, specialmente in Italia?

Esiste una psicologia femminista – ma una psicoterapeuta avrà sempre verso il femminismo un atteggiamento di salubre cautela. In quanto psicoterapeuta, essa ha a cuore le sorti di entrambi i generi, e la fa sentire a disagio una prospettiva ideologica che premia una parte a discapito dell’altra, che idealizza il femminile e squalifichi il maschile, o che semplifichi eccessivamente le differenze sessuali e la loro capacità di fare narrazione, di condizionare gli oggetti (ndr: un ragionamento analogo a quello che si fa per il femminismo della differenza presupponendo una contrapposizione di maschile e femminile binaria).

Femminismo e psicologia dei generi si incrociano nella zona incandescente della sessualità e del piacere. Mi sono allontanata da certo femminismo perché vi leggevo una difficoltà a mantenere il piano della seduzione e del piacere sessuale. Per fare un esempio concreto: sono stata disposta a firmare contro campagne pubblicitarie che usavano il sedere di una donna per vendere una caldaia, ma non ho firmato per campagne pubblicitarie che usavano il sedere di una donna per vendere un paio di reggicalze di pizzo.

Se c’è una cosa che in Italia può fare il femminismo è discriminare la lotta per la libertà della comunicazione sessuata, dalla strumentalizzazione della comunicazione sessuata, ma anche non perdere di vista la questione delle circostanze materiali che producono le asimmetrie di genere.

Fa più danno la macchina venduta con le sise di una signora, oppure il fatto che se non c’è un asilo nido in tutta la provincia a un costo accessibile, la signora ipso facto non lavorerà? Entrambe, e il femminismo deve occuparsi di entrambe, compresa la profonda consapevolezza di dover avere rispetto intellettuale per donne che fanno scientemente scelte qualificabili come reazionarie.  

Parte del problema è anche mantenere un atteggiamento politico anziché pedagogico, specie verso le donne. La deriva pedagogica verso “quelle che non capiscono quanto sono condizionate” cela suo malgrado un’idea di donna come sciocca, passiva, condizionabile.

Ci sono autori che parlano di femminismo e questioni di genere dal punto di vista psicologico di cui consiglierebbe la lettura?

Ci sono moltissime autrici che si sono occupate in prospettiva femminista di psicologia e psicoanalisi, fornendo un contributo importante  – perché un costrutto vincolato da una prospettiva storica o francamente sessista, non è solo un problema politico, ma è anche un problema scientifico – perché è un costrutto che dice cose false a proposito della realtà di cui parla e porterà a scelte inefficaci nel terapeuta che lo dovrebbe utilizzare.

Allo stesso tempo, però, l’intreccio tra sistema sociale,  matrice corporea, e vicenda psicologica è intricatissimo.  Io apprezzo le autrici che si sono occupate di capire come queste questioni si interconnettono, soprattutto mettendo insiemei mod i in cui i sistemi culturali organizzano i sistemi familiari e ne regolano le comunicazioni, e come queste cose performino poi le dinamiche intrapsichiche e comunicative dei componenti. Alla fine, ciò spiega come certe teorie giudicabili come reazionarie sono però clinicamente calzanti per contesti reazionari.

La più grande di questo filone è sicuramente Nancy Chodorow, che non a caso nasce come antropologa, e poi diventa psicoanalista della scuola delle relazioni oggettuali; il suo libro La funzione materna rimane un caposaldo. Un’altra autrice che incrocia, in maniera clinicamente sorvegliata ed epistemologicamente corretta, critica sociale e analisi psicoanalitica è Jessica Benjamin, di cui è stato ripubblicato recentemente il bellissimo quanto complesso Legami d’amore. Se si vuole capire bene, in maniera de-ideologizzata (che secondo me è un buon modo per intervenire poi politicamente e culturalmente su queste questioni), la psicodinamica delle coppie in cui si presenta la violenza di genere, è estremamente interessante, Relazioni d’amore di Otto Kernberg, utile anche a capire a quali determinanti endopsichiche si aggancia nelle donne il subire dei comportamenti fisicamente aggressive.

Il Suo saggio Psicopatologia della vita quotidiana affronta con estrema chiarezza e molta ironia tanti aspetti della vita psichica devianti che sono molto frequenti nella nostra società, permettendo anche ai profani di psicologia di capirci qualcosa. Mi aveva colpito in particolare la parte legata all’anoressia: in un certo senso viene presentata come una patologia direttamente collegata al maschilismo della nostra società e al controllo sul corpo femminile. Che conseguenze hanno dunque questi due aspetti sulla psicologia femminile, ma non solo, e con quali disturbi si esprimono? Quanto può aiutare liberarsi dalla dose di sessismo interiorizzato che ci troviamo a gestire quotidianamente per liberarsi anche di certe malattie psicologiche?

Il collegamento che istituisco tra maschilismo e disturbi alimentari è molto più indiretto di quanto generalmente faccia la critica femminista su questi temi. Sicuramente l’immagine del corpo femminile molto magro pubblicizzata sui media ha un suo peso nel diffondersi della patologia, ma non concordo – da clinico – con l’idea che sia il modello estetico di magrezza da solo a produrre una scelta così grave e dannosa per l’organismo, e che purtroppo può condurre alla morte.

È un’idea – malgrado le ottime intenzioni – ancora una volta segretamente sessista, e che si avvale di un’idea delle ragazze come facilmente suggestionabili, soggetti  a cui dire: “dai buttati fiume è bello!” e quelle tutte giù come pesci.

È anzi interessante constatare come  spesso il disturbo alimentare di questo tipo si presenti in giovani donne molto brillanti sul lavoro, o nella carriera universitaria, donne che se proprio devono usare simbolicamente gli oggetti relazionali rincorrono il paterno, non il corpo femminile. Il controllo del corpo è soltanto un mezzo, un sintomo.

Ciò su cui si può invece ragionare in chiave femminista,  è come l’organizzazione sociale della post-modernità nei paesi capitalisti incroci in maniera pestilenziale e patogena i lussi della società dei consumi con gli avanzi della società patriarcale. Così abbiamo: padri distanti, molto tarati sulla prestazione economica e intellettuale con madri che fanno pochissimi figli, non investono sul lavoro, e mettono in atto relazioni di grande attenzione verso le (poche) figlie.

Una costellazione come questa facilita l’emergere del sintomo anoressico come tentativo psichico di agganciare il padre e di rompere la simbiosi con la madre, garantendo però il fallimento dell’operazione. Non è certo l’unica costellazione possibile, anche perché spesso il sintomo anoressico si costella insieme ad altre diagnosi e problematiche, ma certo è una delle configurazioni che capitano più frequentemente.

Illustrazione di Carol Rollo

Lei dedica anche ampio spazio alla violenza di genere e al femminicidio, peraltro in un saggio al tema dello stalking. In un articolo di Christian Raimo su Internazionale afferma che esiste una differenza con altri paesi in cui il maschilismo è culturalizzato e il femminicidio un problema sistematico, come in Messico, affermando che in Italia c’è una forte componente psicopatologica:  “[…] i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta […] Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa.” è corretto parlare di una “questione maschile” e di una mascolinità messa in discussione dal cambiamento dello status quo che genera tale fenomeno? In questo senso il femminicidio è destinato a diventare un problema cronico come in Messico, se non vengono presi provvedimenti a livello politico?

In un certo senso sì. Noi veniamo, credo, da una sorta di Messico – da un mondo culturale in cui la patologia misogina non era a carico dell’individuo, ma a carico del collettivo. Anzi, in molte aree del nostro paese quella patologia misogina è ancora florida, anche se mediaticamente arriva solo di rado, quando cioè una donna muore, oppure viene perforata la cornice sociale di riferimento. Dove c’è uno stupro di branco, specie se reiterato, dove c’è una donna che viene chiamata puttana perché vittima di un incesto, c’è misoginia culturale – una situazione molto grave che si intreccia spesso e volentieri con diagnosi psichiatriche e degrado sociale.

L’assenza di interventi per la famiglia al livello banalmente amministrativo, cioè la carenza di welfare, rinforza in maniera determinante le psicopatologie individuali e il loro intreccio con le patologie sociali. Femmine povere subiscono la violenza di maschi disoccupati, attuano un sistema depressivo che, semplificando grossolanamente, metterà al mondo bambine depresse livorose che si incastreranno tragicamente con maschi infelici e cattivi.

L’assenza di rete sociale avrà tolto a questi futuri adulti, la possibilità di avere figure positive di riferimento, modelli di maschile e femminile alternativi, e via discorrendo. Protegge molto di più il tempo pieno a scuola, dove una bimba può vedere una maestra che lavora e sa essere felice e affettuosa di mille campagne pubblicitarie su cosa è giusto fare per una donna.


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  1. Lorenzo

    26 Giugno

    È incredibile come più una teoria si permette di non mettere alla prova le variabili ipotizzate più si sente in diritto di passare dal piano individuale a quello collettivo in modo ingiustificato. Psicanalisi che da sempre ha affermato tutto e il suo contrario, supponendo capacitá esplicative illimitate non avendo mai cercato di falsficare la teoria. Ma quando supereremo questa modo di spigare i fenomeni? Quando il cercare di comprendere supererá la volontá di confermare ciò che si crede?

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