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Gli stereotipi di potere maschili e la costruzione di alternative “femminili”

Il 25 giugno l’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ha approvato la prima legge quadro italiana contro le disparità di genere: 45 articoli contro le discriminazioni in campo lavorativo, di welfare, di rappresentanza politica e in favore di pratiche volte a rispondere in modo più adeguato alle esigenze della popolazione femminile come, ad esempio, la medicina di genere.
La notizia ha avuto, nel complesso, scarso riscontro sui media e questo non lascia ben sperare circa le effettive ripercussioni pratiche che tale provvedimento potrà avere in regione e nel resto del Paese. E il problema è, ancora una volta, culturale.

La politica è potere e il potere in Italia è maschile: non solo da un punto di vista statistico (se si escludono alcune oasi felici, le posizioni apicali in ambito dirigenziale, amministrativo, economico sono ad appannaggio degli uomini), ma soprattutto da un punto di vista culturale. Le donne che riescono ad arrivare “ai vertici” devono desessualizzare la loro persona, acquisire tratti maschili, annullare caratteristiche del proprio genere che – tradizionalmente – vengono viste come poco utili al comando.

Molto si è discusso della necessità di valorizzare il femminile come elemento politico, da intendersi come patrimonio di sensibilità e competenze non di necessità legate al sesso biologico della persona, ma al portato culturale e storico occidentale. Empatia, attenzione alla cura, pacatezza, capacità di mediazione e di attesa sono valori che spesso sono stati attribuiti al “gentil sesso” e sminuiti nelle loro potenzialità politiche. Ulisse è andato in guerra e con forza ed astuzia è tornato vincitore, ma Penelope con pazienza e fine strategia ha mantenuto libero il suo trono fino al ritorno. Quale delle due virtù è la più “politica”? In pochi si pongono la domanda, continuando ad intendere la parità come semplice assimilazione di un sesso (debole) a un sesso (forte).

potere femminile politica

John William Waterhouse, “Penelope e i pretendenti” (1912)

Il problema però non è la mancanza di donne al governo: il problema è la mancanza di un pensiero femminile forte. Le donne che raggiungono posizioni dirigenziali devono porre quasi sempre in secondo piano le istanze della “categoria” di cui sono parte per dimostrare – ad una platea culturalmente androcentrica – la propria capacità.

In questo senso la decisione dell’attuale ministra Madia di tornare al lavoro a pochi giorni dal parto è piuttosto indicativa: non si è trattato di una semplice scelta personale (a questi livelli ogni scelta, anche la più intima, è scelta pubblica), ma di un preciso messaggio di genere. “La maternità non è un ostacolo e la priorità spetta agli incarichi politici/di lavoro”. Un messaggio a tratti pericoloso, perché la ministra Madia potrà avere tutto il supporto necessario per gestire questo delicato passaggio, ma – implicitamente – trasmette alle donne italiane il principio che “la maternità è un di più, che va gestito senza creare problemi”.

Le scelte individuali non vanno mai messe in discussione e vanno rispettate e – di certo – non dev’essere compito esclusivo delle donne riportare la politica “coi piedi per terra” rispetto ai tempi di vita, ma un evento del genere poteva fungere da volano per veicolare un pensiero differente: “Posso essere un buon ministr* anche se ho dei figli e momentaneamente decido di dar loro la priorità”.

Visti i pessimi risultati a cui ci ha condotto una società “aggressiva e veloce”, basata sul principio che “tutto ciò che non è capitalizzabile è accessorio e può essere delegato”, forse varrebbe la pena di fare un tentativo con modalità di governo più vicine alla “debolezza e al rispetto dei tempi fisiologici” propri del femminile. Tuttavia anche gli uomini e le donne più illuminate non sembrano volersi far carico fino in fondo di questo passaggio.

La “questione femminile” è – per l’appunto – solo questione femminile e come tale viene affrontata, senza tenere conto del fatto che al mondo siamo 50 e 50. Pensiamo ad alcuni esempi “classici” di discussione politica di genere: la legge contro il femminicidio ed il dibattito sui centri anti violenza.

Premesso che qualsiasi norma o atto finalizzato alla lotta contro la violenza di genere è da elogiare, ancora poco è stato fatto in materia di rieducazione maschile. Solo in alcune realtà ad esempio, nel momento in cui avviene una violenza domestica, l’elemento problematico (uomo) viene allontanato e preso in carico dai servizi.

Oltre a patire la prima violenza da parte maschile alle donne viene chiesto di subire una seconda violenza, più o meno pesante a seconda della gravità del caso, ovvero l’allontanamento da casa, dalla città, dalla rete sociale di appartenenza per “essere messa al sicuro”. Come se il problema, in fondo, fosse la vittima e non il carnefice.

L’uomo può subire un’ordinanza restrittiva o, nei casi più gravi, la carcerazione momentanea, ma poi spetta alla donna “mettersi al sicuro” cambiando vita. Come se la soluzione rispetto alla deforestazione non fosse l’allontanamento dalla foresta di chi la distrugge, ma l’eradicazione di flora e fauna ed il trasferimento “altrove” per salvaguardarli.

Un altro esempio riguarda la legge 194, della quale si discute sempre e soltanto da un punto di vista femminile, dimenticando che, in caso di ricorso all’aborto, la responsabilità è quantomeno di due persone e non di una sola. Eppure molto spesso si sente parlare di donne irresponsabili che non si fanno carico di una corretta contraccezione per poi ricorrere con leggerezza all’aborto: forse con altrettanta leggerezza qualche uomo ha pensato che non fosse compito suo farsi carico della parte “responsabilizzante” del sesso.

Culturalmente però questo non passa e non passa neppure da un punto di vista politico. Un esempio concreto? Non esiste in Italia la possibilità di ricorso gratuito alla contraccezione maschile. In compenso le donne possono avere gratuitamente la pillola mutuabile, basta che si adeguino a “quel che passa il convento”. Posizioni culturali forti. Si potrebbero fare molti altri esempi in materia (legge 40, congedo parentale in primis), ma porteremmo solo ulteriori gocce al mare e cercare di risolvere le singole questioni senza affrontare il tema della valorizzazione della differenza sarebbe velleitario.

Come fare? Ancora una volta il punto è culturale, ma la cultura non evolve con mezzi propri, qualcuno si deve far portavoce del cambiamento e – se ci fosse bisogno di sottolineare l’ovvio – il primo passo dev’essere fatto proprio dalle donne attraverso la reazione agli stereotipi di potere maschili e la costruzione di una visione di potere alternativo.

Non concessioni al “gentil sesso”, non parità nell’assimilazione, ma reazione costruttiva volta alla creazione di un nuovo modello. Non occorre scegliere fra Ulisse e Penelope, non occorre essere Enea o Didone, ma non si deve cadere – come molte volte accade – nell’illusione che si possa essere qualcosa di diverso da loro. La terza via, in questo caso, appare come l’unica davvero percorribile.


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  1. Paolo1984

    21 Luglio

    banalmente parlando la politica ha bisogno sia di forza, astuzia che di capacità di mediazione e di attesa a seconda delle circostanze..doti che possono essere possedute o meno sia da uomini sia da donne

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