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La paura di nominare il lupo: rileggendo Cappuccet...

La paura di nominare il lupo: rileggendo Cappuccetto Rosso

Tutti i cuccioli devono sapere che esistono i predatori.

Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi

Chi crede che le fiabe siano roba da bambini probabilmente non ne ha lette molte. Irriverenti o cupe, carnevalesche o crudeli, le fiabe ci sussurrano, gridano e ridono addosso, certe che anche da adulti non le sapremo ignorare. D’altro canto, spesso questi mutevoli racconti sembrano farsi portatori di una morale conservatrice, chiusa, senza speranza; un po’ come i proverbi che, come s’addice alla saggezza popolare, fanno coincidere la virtù suprema con quella di stare al proprio posto.
Fascinazione da un lato e rabbia da un altro, dunque: forse sono queste le molle alla radice delle infinite riscritture di fiabe che hanno visto la luce negli ultimi decenni. Oggi, però, non parliamo di riscritture. Invece, vorrei parlare di come fiabe che ci sembrano conservatrici abbiano già in sé un potere trasformativo ed eversivo senza pari.

Tutti noi crediamo di conoscere la fiaba di Cappuccetto Rosso. Una bambina attraversa il bosco per andare dalla nonna, disubbidendo alla mamma si fa ingannare da un lupo, il lupo divora lei e la nonna, un baldo cacciatore le salva.

Ora. Un articolo della bravissima Leggivendola m’ha fatto scoprire che, nella prima versione scritta della fiaba – che, ovviamente, sarà stata solo una delle molte che circolavano oralmente in quell’Europa ancora coperta dai boschi –, il finale è diverso: senza l’arrivo di alcun cacciatore, la storia termina con la morte di Cappuccetto Rosso. Sono invece i Grimm a trascrivere per primi la versione che vede l’intervento salvifico del cacciatore. Tali rivelazioni sono state tanto intriganti, per me, da spingermi a rileggere entrambe le versioni. E mi si è aperto un mondo.

Cappuccetto Rosso 1697 (Charles Perrault, I racconti di Mamma Oca)

In questa versione, quando Cappuccetto Rosso parte per il bosco la mamma non le fa alcuna raccomandazione; nessun “non lasciare mai la via”, “non parlare con gli sconosciuti”; nulla.

Propp, nella sua Morfologia della fiaba, ha riconosciuto nel binomio “divieto → infrazione del divieto” una delle dinamiche più comuni nelle fiabe, eppure in questa versione non ve n’è traccia. Il primo adulto che appare nella storia non fa da protettore, qui, ma da mandante: dice a Cappuccetto Rosso di attraversare il bosco e le chiude la porta alle spalle.
Il secondo adulto nella storia è il lupo. Certo, il lupo è il mostro, ma in questa versione la sua equivalenza funzionale con l’adulto è marcata più che mai. È nel suo comportamento alla fine della fiaba, infatti, che risiede la differenza più forte – e più agghiacciante – rispetto a quel che credevo di sapere di Cappuccetto Rosso. Perché quando la bambina entra nella casa della nonna, la scena che si svolge è la seguente:

“Posa la stiacciata e il vasetto di burro sulla madia e vieni a letto con me”. Cappuccetto Rosso si spogliò ed entrò nel letto, dove ebbe una gran sorpresa nel vedere com’era fatta la sua nonna, quando era tutta spogliata. E cominciò a dire: “O nonna mia, che braccia grandi che avete!”. “Gli è per abbracciarti meglio, bambina mia.” (…) “O nonna mia, che denti grandi che avete!” “Gli è per mangiarti meglio.” E nel dir così, quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone.

Se avete la pelle d’oca, siete in buona compagnia.
Il lupo in questa versione si mangia Cappuccetto Rosso, certo, ma prima di entrar nella metafora del divorare quel che chiede alla bambina è di entrare nel suo letto. Se siamo abituati ad associare l’esser divorati dal lupo con la morte, è chiaro che qui il legame ulteriore con la violenza sessuale non è soltanto implicito, ma esplicito. E, cosa ancor più terribile, in questa versione la storia finisce qui: nessun cacciatore, nessuna salvezza, nessuna resurrezione. Cappuccetto Rosso viene divorata e stop, per insegnare – come dice esplicitamente la morale –

ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n’è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere.

Cappuccetto Rosso 1812-15 (Jacob e Wilhelm Grimm, I racconti del focolare)

In questa seconda versione, per cominciare, la mamma offre a Cappuccetto Rosso una raccomandazione. Purtroppo, si tiene sul generico – “non uscir fuori dalla via” – il che lascia il campo aperto al lupo, perché, come dice la fiaba, la bambina non sa che quella sia una bestia pericolosa e quindi non prova paura.

Quest’enunciazione dell’ignoranza di Cappuccetto Rosso è fondamentale, qui, perché la versione dei Grimm non si chiude come ci aspetteremmo. Per prima cosa, certo, la bambina e la nonna vengono salvate dal cacciatore, ma la cosa straordinaria è che, in una delle stesure che i Grimm danno della fiaba, la storia ha ancora un’ulteriore chiusura. In questa stesura, infatti, ci è concesso di vedere una Cappuccetto Rosso che è sopravvissuta al lupo e che, qualche tempo dopo la disavventura, attraversa di nuovo il bosco. Quando viene avvicinata da un lupo, tuttavia, riconosce il pericolo, si affretta dalla nonna e, insieme a quest’ultima, escogita un piano che porta… alla morte del lupo. Non abbiamo bisogno di arrivare alle molte riscritture moderne della fiaba per trovare una Cappuccetto Rosso artefice della sua salvezza: ce l’hanno già fornita i decisamente non femministi fratelli Grimm.

Illustrazione di Elena Temporin (per Emme Edizioni)

Imparare dai propri errori

Il potenziale emancipante della versione dei Grimm non ha bisogno di esser commentato: una bambina, non conoscendo il mondo, subisce una violenza, ma una delle figure che dovrebbero tutelarla la salva e le dà la possibilità non solo di sopravvivere, ma di tornare ad attraversare il luogo del pericolo avendo, stavolta, gli strumenti per proteggere sé stessa e gli altri.

Eppure, in un qualche modo oscuro, io credo che un potenziale eversivo sia presente anche nella prima versione. Certo, lì apparentemente non c’è spazio per la possibilità della bambina d’imparare dai propri errori, ma questo è vero solo se stacchiamo la fiaba dal suo contesto di fruizione originario: il focolare di casa, dove un adulto – di solito una figura femminile – racconta a voce una storia che funga da palestra per la bambina che ascolta. Ed ecco, allora, il potenziale rivoluzionario: perché raccontare al debole le possibili crudeltà del forte significa fornirgli la possibilità di sfuggirne.

Un’operazione del genere richiede un coraggio che la società contemporanea non conosce. L’idea di descrivere gli orrori del mondo ai bambini ci paralizza, salvo arrivare poi a chiederci come spiegare loro cose come il terrorismo quando queste irrompono nella loro vita. Alla fine della storia, però, sembrerebbe che siano i grandi ad aver paura di nominare il lupo; i bambini, se ci fidiamo di loro e gliene parliamo, potrebbero riuscire a ucciderlo anche senza di noi.


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