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I nostri preferiti del 2018: film e TV

I nostri preferiti del 2018: film e TV

The Haunting of Hill House

Di Caterina Bonetti

Donne e horror: un binomio che spesso porta con sé grandi stereotipi. Diciamocelo: già è molto difficile trovare un horror nel quale si arrivi a dare profondità e spessore psicologico ai personaggi. Poi se si tratta di donne, diventa ancor più complicato. Ne avevamo parlato su questi schermi in occasione dell’uscita di The Babadook e ora, in extremis, torno a parlarne grazie a The Haunting of Hill House, serie Netflix tratta dal romanzo di Shirley Jackson. Ehi, ma l’autrice è una donna! Questione non indifferente se si osserva come la trama, certo adattata allo schermo, si sviluppi a partire da una figura femminile a tutto tondo – architetto, moglie, madre – che non arretra davanti a temi complicati come lo stigma della malattia mentale. Una serie non scontata, con qualche piccola sbavatura, di genere, ma adatta anche a chi ama le serie di forte tensione psicologica, senza avere una fissazione maniacale per l’orrore.


Revenge – Coralie Fargeat

Di Silvia Lanotte

Piccolo film indipendente, Revenge è, come suggerito dal titolo, un revenge movie. La bellissima protagonista Jen (un’ottima Matilda Lutz) segue il suo amante e i suoi amici nel loro ranch nel deserto, dove è violentata e quasi uccisa dai tre uomini. Se la trama è abbastanza usuale per il genere, mi ha colpito moltissimo la visione della regista Coralie Fargeat: se a inizio film c’è una totale oggettivazione di Jen da parte dei personaggi e della regia, la ragazza diventa man mano la lente attraverso cui la camera mostra la realtà. I personaggi maschili, da prevaricanti e superiori, diventano meschini e banali e Jen da preda diventa cacciatrice (in tutti i sensi). Preparatevi a paesaggi desertici alla Mad Max, una caccia all’uomo all’ultimo litro di sangue finto, una protagonista innovativa per il genere e un piano sequenza fenomenale alla fine.


Rafiki – Wanuri Kahiu

Di Marta Corato

È vero che ci meritiamo storie di persone LGBTQ+ che non siano sempre la solita roba ma, anche se Rafiki vi ricorderà molto di altre cose avete visto, vale la pena di vederlo. La storia di Kena e Ziki, due ragazze che vivono a Nairobi e trovano l’ammòre, vi farà esplodere di gioia e di tenerezza. Non è rivoluzionario – basti dire che l’omosessualità è illegale in Kenya – ma è una bomba di emozioni degna di una pioggia di heart emoji. Non vedo l’ora di rivederlo e piangere di felicità e di tristezza e di farfalle nello stomaco per due ore filate.


Aggretsuko

Di Jennifer Guerra

Quest’anno ho cominciato a lavorare per davvero. E ho scoperto quanto possa essere difficile, a volte, essere femmina e passare la maggior parte del proprio tempo chiusa in un ufficio – per quanto abbia la fortuna di trovarmi in un posto fighissimo con delle persone fighissime. Poi ho scoperto Aggretsuko, un anime prodotto da Netflix e Sanrio (sì, quelli di Hello Kitty) che ha per protagonista un panda rosso femmina che subisce le angherie e il sessismo dell’ambiente di lavoro. Sopporta, sopporta, sopporta, ma quando si incazza, cioè spesso, sfoga la sua rabbia trasformandosi da piccolo batuffolo kawaii nella regina del karaoke black metal.


Widows – Eredità Criminale – Steve McQueen

Di Sara Antonicelli

Un film diretto da Steve McQueen e co-scritto da Gillian Flynn non poteva essere una delusione, e infatti è uno dei migliori degli ultimi anni. Bando ai remake al femminile, misere operazioni commerciali che cercando di cavalcare l’ondata femminista degli ultimi anni: questo film è una gioia per gli occhi e per la mente. È un heist movie modello, ma che abbandona la trama classica per offrire significativi scorci sui problemi di razzismo e sessismo che affliggono la nostra società. Le protagoniste fanno il film, sono personaggi tratteggiati magistralmente, che scavalcano ogni trope classico e vengono percepite finalmente in maniera tridimensionale, quanto – se non più di – molti altri antieroi al maschile del cinema.


The Chilling Adventures of Sabrina

Di Laura Vivacqua

Teoricamente il remake della famosa serie tv degli anni Novanta; tra le numerose differenze, però, l’unica costante è la magia. Il gatto Salem non parla, le zie Spellman spiccano nei loro contrasti ed entrano ben più di prima nell’azione, le new entry sono lo specchio del nuovo target generazionale e della sempre maggiore diversificazione dei prodotti di intrattenimento: il cugino Ambrose, gay, e l’amica Rosalind sono afroamericani, Susie preferisce pronomi maschili. L’atmosfera è cupa: non vengono risparmiati elementi gore né i tratti più cruenti della concezione medievale della stregoneria. Al punto da adirare gli adepti della Chiesa di Satana, che hanno sporto denuncia per l’appropriazione da parte di Netflix dell’immagine di Baphomet.

Illustrazione di Laura Vivacqua


Bojack Horseman – Stagione 5

Di Alessandra Perongini

Se non avete mai guardato Bojack Horseman, è il momento per farlo. Quello che mi ha spiazzata e che ho amato dell’ultima stagione, uscita a settembre, è la profondità di sviluppo che subiscono i due caratteri femminili principali, Princess Carolyn e Diane. Da un lato Carolyn, agente di Bojack, workaholic ai limiti del patologico che ha imparato a soffocare qualsiasi sentimento per la carriera ed il successo, si trova ad affrontare il tema dell’età che avanza e soprattutto quello della maternità, una maternità che decide di inseguire ancora una volta da sola, senza un compagno, nella formula del tentativo di adozione. Dall’altro lato Diane, brillante idealista che deve fare i conti con la non facile questione del compromesso: come si fa ad essere femministe, e a mantenere inalterato il proprio messaggio, in un mondo soggetto alle facili strumentazioni come quello dello show business? Che cosa deve fare, restare inamovibile sulle proprie convinzioni o piegarsi a suggerire all’amico Bojack di infilare nelle interviste qualche parola ormai di moda come intersectionality tanto per far guadagnare qualche punto al proprio personaggio? La risposta non è univoca, è complessa, ed è un ottimo spunto di riflessione per tutt* noi.


One Mississippi

Di Valeria Righele

“Good evening. Hello. I have cancer”: la battuta con cui Tig Notaro aprì il suo spettacolo al Largo Club di Los Angeles il 3 agosto 2012 è ormai leggendaria. Non solo aveva scoperto di avere un tumore, ma aveva anche contratto un’infezione intestinale che l’aveva messa in pericolo di vita, e sua madre era appena morta per un banale incidente domestico. Ma lei fu in grado di scherzarci sopra e processare quello che le stava succedendo tramite la comedy, usando questo linguaggio come una vera medicina. E facendolo per sé ha aiutato anche noi spettatori a farlo. Dal piccolo palco del locale, il suo pezzo è stato poi trasposto in una sceneggiatura a quattro mani (Tig Notaro + Diablo Cody) che è diventata, appunto, One Mississippi, una dramedy familiare ambientata in una ruspante cittadina del Sud degli Stati Uniti. Si guarda ridendo e si piangendo contemporaneamente. È un gioiello.



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