READING

Novembre: sull’economia del “perché no...

Novembre: sull’economia del “perché non l’ha detto prima?”

È sempre un momento difficile per essere femminista, ma le ultime settimane state particolarmente intense e mirabolanti per la maggior parte di noi. Ci siamo dovute e dovuti scontrare sì con ricordi dolorosi portati alla luce da #quellavoltache e #MeToo, ma anche con la realizzazione che certe cose che avevamo liquidato non erano in realtà delle sciocchezze.

A questo scombussolamento – certe volte piccolo, certe volte cataclismico – è seguito un altrettanto intenso periodo di epurazione di tutta la gente che aveva fatto battute orribili o commenti ripugnanti riguardo il caso Weinstein e le sue iterazioni con vittime e criminali diversi.

Anche i più volenterosi dei miei contatti, quelli che nelle chat e nei gruppi si dicevano pronti a aprire gli occhi ai conoscenti, ormai si danno all’elimina+blocca coatto al primo commento fuori luogo – una reazione del tutto comprensibile, alla luce di quante persone nella nostra vita si siano rivelate più spregevoli del previsto.

Mentre quelli che rinnegano delle violenze sono casi persi, sembra impossibile da debellare la categoria ferocemente testarda del “Perché non l’hanno detto prima?”, “Eh, ma vent’anni dopo…”, “Adesso che non le fa più comodo, allora…”, “Sicuramente quando andava bene per la sua carriera andava bene a lei…” eccetera.

Per quanto abbia visto centinaia, se non migliaia, di questi commenti, nei molti anni in cui SR ha scritto di violenze sulle donne e io mi sono occupata di questioni di genere, non riesco a non rimanere perplessa. Perché tutti sono pronti a trovare i favori sessuali un elemento valido per avanzare la propria carriera, ma sembra così difficile capire che denunciare una violenza potrebbe voler dire perdere tutta quella carriera?

Se forse è difficile per alcuni capire gli argomenti sociali, morali, culturali per cui non ci si fa avanti, perché sembra così difficile ricordarsi che “carriera” non vuol dire “successo” per tutte le persone coinvolte – ma che per migliaia di donne vuol dire avere un lavoro che metta un tetto sopra la loro testa e un pasto sulla loro tavola?

Innanzitutto, è importante premettere che le vittime di molestie e violenza non devono niente a nessuno. Molti di noi non hanno neanche voglia di raccontare com’è andata la giornata al lavoro, figuriamoci la voglia di parlare di uno (o più) dei momenti più traumatici della loro vita.

Ma andiamo con l’esempio personale. Quando avevo ventidue anni, lavoravo in un hotel; non serve dire che il fatto che passassi otto ore da sola alla reception mi metteva nella situazione perfetta per ricevere ogni sorta di commento e proposta vomitevole, specialmente da parte di due clienti regolari, che stavano all’hotel spessissimo e che mi dicevano regolarmente delle cose da far accapponare la pelle, specie quando tornavano ubriachi fradici alle undici di sera.

Quando ho detto al mio capo che i due mi mettevano a disagio, lui mi ha fatto notare che la loro permanenza pagava il mio stipendio, e che quindi avrebbe licenziato me piuttosto di rischiare il rapporto coi clienti, e quindi di star zitta e sorbirmele.

Da quel momento a quando mi sono licenziata (peraltro per motivi del tutto diversi) ho avuto una paura matta che questi agissero in base a quello che avevano delineato in mesi di “apprezzamenti”; una paura matta di andare di nuovo dal mio capo che tanto non mi avrebbe aiutata; una paura matta di perdere il mio lavoro e/o di venire molestata e perdere il mio lavoro.

Quello che mi è capitato non è niente rispetto a quello che hanno subito altre persone. Ma soprattutto, questo era un lavoro di cui, alla fine della fiera, non mi fregava assolutamente niente, non volendo fare carriera nel mondo degli hotel. Avrei potuto smettere senza alcuna conseguenza sul resto della mia vita. Nel caso mi fossi trovata senza uno stipendio, sarei stata abbastanza fortunata da contare sulla mia famiglia.

Immaginate in che trappola si devono essere sentite le donne messe all’angolo da Weinstein, con tutto il resto della loro vita professionale che dipendeva da quel momento. Immaginate come si devono essere sentite le persone molestate da datori di lavori a cui non potevano rinunciare, da persone che avevano in mano tutto il loro futuro. Alcun* di voi non devono immaginarlo, purtroppo.

Illustrazione di Laura Nomisake

La scelta di fare la cosa giusta – denunciare il proprio molestatore – sembra facile, ma non lo è affatto. In un bel saggio su The Atlantic, l’attrice e regista Brit Marling riflette sulla sua esperienza con Weinstein. Parla di come, in quanto sceneggiatrice e regista dei suoi film, ha sentito di poter rifiutare le sue avances perché sarebbe stata in grado di fare film anche senza bisogno di lui. Ma racconta:

Mi sono seduta nella mia stanza dell’hotel da sola e ho pianto. Ho pianto perché ero andata su con l’ascensore anche se sapevo cosa voleva dire. Ho pianto perché avevo lasciato che mi toccasse le spalle. Ho pianto perché in altri momenti della mia vita, in altre circostanze, non avevo avuto la possibilità di andarmene.

Uno studio statunitense del 2015 ha trovato che una su tre donne ha subito molestie sul posto di lavoro. Non posso immaginare che le proporzioni in Italia siano molto diverse – anzi, a giudicare dalla quantità di “allora non posso neanche più fare un complimento?” che ho visto, potrebbero essere ben peggiori.

Quante donne si trovano nella posizione delle attrici molestate da Weinstein – una posizione in cui fare la cosa “giusta” mette in pericolo tutto il resto della loro vita? Come si fa a non capire perché, dopo che la verità è finalmente venuta a galla, ci sia voluto così tanto tempo perché queste donne – alcune ormai superstar di Hollywood – fossero in una posizione abbastanza sicura per poter parlare?

Questo non vale soltanto per il mondo del cinema, ovviamente. Nella puntata più recente del mio podcast del cuore, Call Your Girlfriend, sono state intervistate due donne – l’ex presentatrice di Fox News Gretchen Carlson e l’ex venture capitalist Ellen Pao – accomunate dal fatto che denunciare le molestie subite sul posto di lavoro è costato loro la loro carriera. Queste sono due donne nella posizione di poter rinunciare al proprio lavoro in nome del fare la cosa giusta, ma non tutte sono state così “fortunate”. Proprio come il mio capo, anche la persona a cui l’ingegnera di Uber Susan Fowler ha denunciato le proprie molestie le ha detto di trovarsi un altro lavoro.

Uno studio della rivista scientifica Gender & Society ha analizzato le conseguenze del denunciare una molestia nella vita di donne all’inizio della loro carriera. 80% di queste donne ha cambiato lavoro nei due anni successivi alla denuncia, in maggior parte perché il posto di lavoro non aveva risposto prontamente alla loro denuncia e/o per evitare i propri molestatori. Alcune persone hanno cambiato del tutto l’industria in cui lavoravano. In quasi tutti i casi, denunciare la propria molestia ha messo queste donne in una condizione di forte difficoltà economica.

Illustrazione di Laura Nomisake

Visto che ormai è di pubblico dominio che il mondo è in mano a una manica di bavosi, da ogni parte vi giriate troverete testimonianze di donne la cui intera carriera sarebbe stata distrutta dal mettersi contro un uomo più potente di loro – che siano i media, la politica, il cinema, ma scommetto che varrebbe letteralmente per qualsiasi campo.

C’è chi è nella posizione privilegiata di Gwyneth Paltrow e può raccontare la sua storia senza subire alcuna ripercussione. C’è chi, come Asia Argento da settimane e Miriana Trevisan negli ultimi giorni, non trova un briciolo di compassione e aiuto dalle persone che suggeriscono che “dovesse dirlo prima”, ma solo insulti. C’è chi non può dirlo neanche adesso, neanche tra sei mesi, neanche tra dieci anni senza mettere in gioco la propria sopravvivenza.

Il tema di novembre 2017 sarà muri, che in questo contesto mi fa pensare soprattutto allo sbattere la testa contro il muro quando leggo i commenti sui social media – infatti ho smesso. Mi fa pensare anche ai muri che si trovano davanti le donne quando cercano di denunciare le molestie subite, ma per fortuna anche ai muri che noi costruiamo per difendere chi ne ha bisogno. Oltre a quello che vi immaginate, parleremo di barriere architettoniche, street art, claustrofobia e molto altro.

Illustrazione di Federica Carioli


RELATED POST

  1. D.

    11 Novembre

    Peccato che questa cosa degli idioti sui social vi faccia sentire così. Quello che vedo io è un momento storico, in cui finalmente donne costrette a subire per tanti anni si stanno riprendendo la libertà di dire quello che pensano e che non si sono mai sentite sicure di esprimere finora.

    Il fenomeno #metoo è senz’altro accompagnato da brutti ricordi e dalla constatazione che gli abusi contro le donne sono nella maggior parte dei casi sistematici, ma è anche diventato un “movimento” di proporzioni enormi, mai così partecipato, comparabile ad una nuova ondata di femminismo.

    È naturale che ci sia gente che si oppone a questo sentimento, non è mai facile portare avanti una battaglia per cambiare la società, ma io vedo dei segnali incoraggianti. Il muro non è più quello contro cui sbattere la testa, ma quello che finalmente abbiamo le energie, la possibilità e la volontà di abbattere, come a Berlino nell’89.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.