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Le barriere architettoniche, un problema da abbatt...

Le barriere architettoniche, un problema da abbattere

Devo essere sincera: durante il mio percorso come studentessa di architettura, mi sono preoccupata di un sacco di cose, ma il mio privilegio di ragazza in salute e abile (fisicamente e sensorialmente) ha fatto sì che alla questione delle barriere architettoniche non pensassi più di tanto. Durante un corso del secondo anno, la professoressa a un certo punto ci diede da studiare qualche normativa mentre l’assistente ci spiegava in parole povere che dovevamo inserire, nelle piante del progetto definitivo, il disegno della carrozzina nei bagni (con annessa rotazione della stessa, di modo da far vedere che – volendo – lo spazio si poteva adattare anche a qualcuno con problemi di deambulazione). Oltre a questo non ho altri ricordi in merito.

Qualche anno dopo, quando mi sono ritrovata a fare la volontaria della pubblica assistenza a portare persone con problemi di mobilità a fare visite e terapie, ho iniziato a capire che il problema dell’agibilità del bagno quasi quasi era il meno.

Sprovvista di senso pratico e di forza nelle braccia, ho iniziato a tirare tutti gli accidenti possibili a chiunque avesse contribuito alla progettazione, esecuzione e realizzazione materiale di ospedali, bar, marciapiedi: una soglia di ingresso non propriamente in quota con il resto della pavimentazione bastava per trasformare le cose più semplici, come varcare una porta, in un dramma infinito. Se appariva qualcun* disposto a darmi una mano, la carrozzina riuscivo a farla passare, ma giocare a tetris con le barelle nei corridoi di una RSA (Residenza sanitaria assistenziale) non è stato altrettanto divertente, tanto più quando la persona che devi condurre in ospedale non sta molto bene e devi arrivarci il prima possibile.

Ho iniziato così ad approfondire la questione, chiedendomi a che punto siamo e se c’è qualcosa che (non necessariamente da apprendista architetta) potrei fare.

Cos’è una barriera architettonica?

Generalmente, per barriera architettonica si intende “qualunque elemento che impedisca, limiti o renda difficoltosi gli spostamenti e la fruizione di servizi”. Da questo si deduce che ciò che può essere percepito come barriera da una persona, può non esserlo per un’altra, e non esiste un modo universale e immutabile per superarla.

È importante sottolineare che questo concetto non riguarda esclusivamente chi ha delle disabilità motorie, ma anche chi ha dei limiti sensoriali e, più genericamente, qualsiasi persona che si distacca dall’utente-tipo che hanno in mente i progettisti – dalla persona anziana che cammina male, al genitore che spinge un passeggino, a chi trasporta oggetti ingombranti o pesanti.

La legge 13/1989

In un mondo ideale, l’architettura dovrebbe adattarsi a ciascuno di noi, un po’ come la Stanza delle Necessità di Harry Potter – il luogo magico del castello di Hogwarts che appare quando ne hai bisogno e ti dà quello che cerchi. Ma, essendo incapaci di fare incantesimi, dobbiamo affidarci al buon senso e fare del nostro meglio con la prosaica realtà che abbiamo.

Per questo motivo che sono nate norme specifiche come la legge 13/1989, che trova la sua attuazione nel D.M. 236/89 e che sostanzialmente prevede che ogni luogo sia:
accessibile (possibilità per chi ha ridotta capacità motoria o sensoriale di fruire di spazi e attrezzature in condizioni di sicurezza e, dove possibile, autonomia);
• visitabile (si può accedere agli spazi di relazione e ad almeno a un servizio igienico per unità immobiliare);
• adattabile (l’edificio si può adattare senza bisogno di modificarne la struttura portante e la rete degli spazi comuni).

Nel 1986 erano nati anche i Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche, i P.E.B.A., che sarebbero dovuti essere obbligatoriamente adottati dai Comuni entro breve tempo, ma che secondo il portale Disabili.com e una mia ricerca sembrano essere caduti nel vuoto nella maggior parte dei casi – ad esempio, sul sito del Comune toscano in cui vivo, l’Ufficio Tecnico non ne fa menzione.

Progettazione Universale

In compenso, ho scoperto l’esistenza del concetto di Universal Design o – in italiano – Progettazione Universale. Coniato dall’architetto Ronald Mace della University of North Carolina, la Progettazione Universale risponde a quello che è un criterio fondamentale della buona progettazione: cerca di rispondere alla necessità del maggior numero di utenti possibile, che siano o meno disabili.

Nel 1997, il suo Centro Ricerche per l’Universal Design (sfortunatamente al momento non attivo per mancanza di fondi) aveva definito sette principi su cui basare la progettazione: equità, flessibilità, semplicità, percettibilità, tolleranza all’errore, contenimento sforzo fisico, misure e spazi sufficienti. Indubbiamente, questo è un approccio metodologico più che pratico, che molto lascia alla sensibilità del progettista e alla sua conoscenza delle varie problematiche. Com’è la situazione su questo fronte?

Tralasciando la mia esperienza di soccorritrice, ho chiesto ad amici progettisti e ad ex colleghi di università quanto ne sapevano di barriere architettoniche e se mai avevano avuto occasione di riflettere su questo tema. In ambito accademico, quasi nessuno di noi ha mai avuto una formazione specifica sul tema – qualcuno ha avuto un’infarinatura nei corsi di Tecnologia dell’architettura, a qualcun altro è stato ricordato il bagno dei disabili in quelli di Progettazione, una mia amica che è stata assistente in un corso di Progettazione Strutturale ricorda di aver accolto con stupore e curiosità il progetto di una sua studentessa autonomamente pensato per chi era in sedia a rotelle.

Nel mondo del lavoro, quasi tutti mi hanno risposto che la normativa per i disabili serve per farsi approvare i progetti in comune. Sollecitati a riflettere sul tema, hanno riconosciuto che effettivamente può essere “una buona occasione progettuale”, ma che sfortunatamente la tendenza è fare il progetto prima e adattarlo eventualmente dopo.

Inclusive Design

Eppure, negli ultimi vent’anni l’Inclusive Design sembra essere diventato incredibilmente popolare in ambito di ricerca: esistono innumerevoli pubblicazioni accademiche, tesi di dottorato che se ne occupano. I progetti per tutti sono valorizzati dal marchio Dfa (Design for all Italia), e questo non riguarda soltanto quelli architettonici (il primo ad aver ricevuto questo marchio è stato l’autogrill Villoresi Est, sulla A08, progettato dall’architetto Giulio Ceppi, dall’ergonomo Luigi Bandini Buti e Andrea Stella, un ragazzo che in seguito a un proiettile è rimasto in sedia a rotelle) ma anche quelli di disegno industriale e di grafica.

Esiste il progetto Archdiversity, a cui partecipano nove firme importanti dell’architettura e ha lo scopo di fornire “un meta-progetto collettivo, che sia fruibile dal maggior numero di utenti”.
All’interno dell’Unione Europea si ricerca l’inclusione anche in ambito informatico, mediante i concetti di eInclusion e di eAccessibilità, rendendo siti e applicazioni accessibili. Eppure, nonostante tutti gli sforzi degli ultimi anni, tutto questo sembra ancora un po’ slegato dalla realtà, conosciuto forse quasi esclusivamente da chi è già interessato al tema, vuoi per esperienze personali, vuoi per motivi di ricerca.

Qualche consiglio?

Credo che la cosa migliore sia, innanzitutto, parlarne. Segnalare, quando, nella nostra esperienza quotidiana, troviamo qualcosa che non va – un marciapiede troppo alto, ad esempio; la mancanza di uno spazio in cui attraversare la strada in sicurezza o di una rampa; un parcheggio per disabili occupato senza averne diritto; la pedana per accedere ai mezzi pubblici non funzionante. Informarsi e studiare, specialmente se si lavora in ambito progettuale. E non dimenticarci di ascoltare le esperienze di coloro che esperiscono queste difficoltà tutti i giorni: a questo proposito, un ottimo lavoro di sensibilizzazione lo fa la Onlus di Jacopo Melio, Vorreiprendereiltreno, nata dalla sua esperienza personale di studente pendolare in sedia a rotelle e di esperto in ambito di comunicazione – visto che “nessuno è il suo paio di scarpe”, come dice lui, Melio lavora come giornalista già da tempo, non scrivendo esclusivamente di difficoltà motorie.

Jacopo Melio

Sono convinta che, se riusciamo a far conoscere queste problematiche a chi non le ha mai vissute – direttamente o indirettamente che sia – possiamo davvero compiere una piccola rivoluzione. Una volta che se ne ha preso coscienza, non si torna più indietro.


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