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Rebecca Horn, l’arte che ricomincia dal corpo

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Quando diventa difficile stare al mondo e comprenderlo, quando non è possibile esplorarlo o raccontarlo, l’arte può venire in nostro aiuto?

Rebecca Horn nasce in Germania l’anno prima che la Seconda Guerra Mondiale finisca. Parlerà poco la sua lingua madre, in quei primi anni, preferendovi il francese e l’inglese: intervenivano come movente da un lato i continui spostamenti della famiglia, dall’altro la difficoltà di appartenere a un popolo troppo odiato in quegli anni. Solo con la tata rumena Rebecca scopre un nuovo modo di comunicare: il disegno. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Amburgo, scavalcando il volere dei genitori che volevano studiasse economia, e gettando così le basi di un percorso che la porterà a essere una degli artisti tedeschi più illustri al mondo.

Presto, però, dopo un solo anno di accademia, deve fermarsi: avendo lavorato con materiali tossici, aveva contratto una malattia alle vie respiratorie che la costrinse per un anno intero a rimanere in sanatorio. Mentre è in cura, lontana da casa, entrambi i genitori muoiono; Rebecca Horn decide di prolungare di altri due anni il suo isolamento, per lasciar tempo alle ferite, fisiche e psicologiche, di rimarginarsi.

In questo limbo di tempo e di spazio, in cui rimane separata da tutto e da tutti, si trova a sperimentare una nuova relazione con ciò che la circonda. È un lento ricominciare daccapo, una riscoperta cauta: i primi lavori di Rebecca Horn diventano una vera e propria esplorazione del mondo. Le body extensions, in particolare, saranno un modo di analizzare e ripristinare l’equilibrio tra spazio e corpo, con esiti fatti su misura: sarà il corpo della Horn a indossarli e saranno stati modellati dalla sua percezione. Anche la scelta di utilizzare materiali morbidi come stoffe e piume, non nocivi, è motivata biograficamente.

Un’artista che attraversa una situazione simile è Frida Kahlo, e in effetti c’è un’opera in particolare che avvicina le esperienze di malattia, isolamento e guarigione (parziale) delle due donne: Einhorn, Unicorno (1970-72) di Rebecca Horn richiama, nelle imbragature e fasciature, La colonna rotta (1944) di Frida Kahlo.

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Einhorn (Unicorno)

Sono strutture che costringono e allo stesso tempo liberano, limitano il corpo e nel contempo gli concedono nuove possibilità: su queste basi si sviluppano tutti i primi lavori della Horn, la cui ricerca artistica proseguirà con la realizzazione di sculture cinetiche, che lentamente prescindono da e rimpiazzano il corpo, e compariranno anche nei lungometraggi dell’artista, come The Feathered Prison Fan in Die Eintaenzer (1978) o The Peacock machine in La Ferdinanda (1982).

E se gli ultimi lavori agiscono direttamente sullo spazio, modificandone la percezione con l’utilizzo di specchi, luci e musiche, è innegabile che il percorso di Rebecca Horn mostri una profonda coerenza logica, per la quale ogni cosa, appena modificata nel suo uso (guanti con le dita lunghissime, penne d’uccello su glabre guance umane, ventagli di carta usati come ali) assume una sfumatura inattesa, diventando metafora concreta di qualcos’altro poco visibile – come un equilibrio o una ricerca.

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Finger Gloves

La trasformazione dell’esperienza: questa è arte pura.

Uno dei primi sensi a venire in aiuto alla vista, quando dobbiamo orientarci, è il tatto. Se ci troviamo in una stanza buia, apriamo le braccia per sondare lo spazio che ci circonda, valutare le distanze, evitare come possibile gli inciampi. Con Finger Gloves (1972), Rebecca Horn mette in questione la collaborazione tra vista e tatto nella nostra percezione del mondo: questi guanti sono leggeri, si possono muovere senza sforzo, raggiungono gli oggetti più lontani – e comunque permettono di mantenere una certa distanza dalle cose. La relazione con ciò che ci circonda è alterata: è come se le mie dita potessero essere infinitamente più lunghe, dando l’illusione alla mente che io stia veramente toccando ciò che invece solo le estensioni sfiorano.

Rebecca Horn dice che indossando i Finger Gloves, “mi sento toccare, mi vedo afferrare, controllo la distanza”: essere presenti all’esperienza ma allo stesso tempo proteggersi dalle cose che, essendo sconosciute, potrebbero danneggiare – quando il toccare dovrebbe invece comportare un’intimità. Con queste estensioni quello della Horn diventa un corpo sensoriale all’ennesima potenza – ma completamente limitato.

Il passo successivo, nella ricerca artistica e intima della Horn, è fatto verso gli altri. Nel tentativo di annullare o almeno domare la sua solitudine, la comunicazione con l’altro ricomincia, attraverso forme che ricordano (e non ancora sostituiscono) un corpo. Per esempio, le sue maschere di penne hanno a che fare con la vicinanza e l’intimità – con quel che ne rimane, ma anche con quella che si vuole ripristinare.
Una maschera, infatti, protegge la mia identità; allo stesso tempo, però, e proprio in virtù di questa protezione, blocca la mia conoscenza dell’altro e la mia esperienza del mondo viene fisicamente limitata: indossando la Cockfeather Mask (1973) “la mia vista è occupata dalle penne, per vedere il suo viso devo girare la testa di lato, come un uccello”.

Ecco allora, invece, una una maschera che si può aprire e può accogliere, in senso conoscitivo ed erotico: la Cockatoo Mask (1973), con le cui “penne accarezzo il viso della persona che mi è vicina – lo spazio intimo tra noi è riempito da sensazioni tattili”. L’attrazione si fa tangibile, mentre la distanza altrimenti infinita tra noi e l’altro è colmata e racchiusa.

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Cockatoo Mask

Queste prime opere concretizzano il tentativo incessante di Rebecca Horn di mettere al e nel mondo, protraendola verso l’esterno, come se fosse un arto esplorativo, la propria interiorità sofferta, facendo della realtà un processo di cura, in un interscambio per il quale il modo in cui percepiamo il mondo diventa il modo in cui questo esiste per noi – e noi esistiamo in esso.


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