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Lezioni di empowerment: “Hunger Makes Me a Modern Girl” di Carrie Brownstein

di Elisa Fiorucci

Poco più di un anno fa, in uno stato di trepidazione e ansia, uscivo di casa nel gelo di un pomeriggio romano. Ero una ragazza con una missione: procurarmi legalmente il nuovo disco di uno dei miei gruppi preferiti di sempre, tornando al rito ormai anacronistico dell’acquisto in negozio e dell’ascolto dalle casse dello stereo a volume altissimo. Trentadue minuti e diciassette secondi di lacrime dopo, avevo un verdetto: sono tornate, sono tornate sul serio. Il disco in questione era No cities to love. Il gruppo in questione le Sleater-Kinney.

Come già raccontato, le Sleater-Kinney sono una cosa grossa. Tornavano dopo una pausa quasi decennale, e le aspettative erano altissime. Non sono la persona più adatta a giudicare con una parvenza di lucidità questo nuovo lavoro, ma a quanto pare le reazioni della critica non sono state tanto diverse dalla mia. Al di là di ogni gusto personale, l’impressione è che abbiano fatto questo disco perché avevano bisogno di dire certe cose, esattamente quanto ne avevamo noi di sentircele urlare in faccia.

Carrie Brownstein suona/scrive/canta in questo gruppo. E fa tutte queste cose divinamente, tanto da essersi meritata anche un posto nella non ambita classifica dei “25 chitarristi più sottovalutati di tutti i tempi”, votata dai lettori del testosteronico Rolling Stone. Il suo memoir si chiama Hunger Makes Me a Modern Girl ed è uscito lo scorso ottobre. Visto che evidentemente questa donna non sa fare niente male, questa biografia (“libro dell’anno” per Rough Trade) è ovviamente fantastica.

jjoehv7hwnld1vvy0q6rMi ero ripromessa di centellinarne la lettura – ho fallito. Pagina dopo pagina, mi sono ritrovata a voler fare delle solitarie standing ovation (in luoghi inapproppriati come la metro A), baciando il suo libro come una reliquia in un impeto di riconoscenza e di amore. Ci sono molte ragioni per cui dovreste leggerlo anche voi, anche e soprattutto se non avete la più vaga idea di chi siano Carrie Brownstein e le Sleater-Kinney.

Nel multiforme e variegato panorama musicale, da un po’ si è tornati a parlare di femminismo. Dire che Carrie è femminista è affermare una tautologia, ma il suo punto di vista è particolarmente interessante. Da una parte spiega quanto furono importanti Kathleen Hanna, Donna Dresch e le altre (“It was a reactionary time. Each step felt like a landmine” – “Era un periodo reazionario. Sembrava di fare ogni passo in un campo minato”), ma dall’altro illustra i motivi per cui le Sleater-Kinney hanno sempre cercato di prendere le distanze dal movimento Riot Grrrl.

Affronta di petto l’argomento sessismo, non solo quello dell’industria musicale – e il relativo problema della legittimazione – ma anche le contraddizioni interne a quei contesti che volevano essere più sicuri e incoraggianti per le artiste donne, ma invece si rivelavano elitari e tutt’altro che inclusivi.

Perché fa ridere. Un sacco. Come la parte in cui racconta di aver implorato Elizabeth Davis delle 7 Year Bitch di darle un posto nella band, con una lettera in cui non solo si paragonò a John Frusciante, ma arrivò a raccontarle praticamente la storia della sua vita, dettagli imbarazzanti compresi. Ma insomma, stiamo pur sempre parlando di uno dei geni dietro Portlandia.

Carrie scrive benissimo, ok, ma soprattutto: scrive nello stesso identico modo in cui suona. In modo asciutto, senza fronzoli, senza giri di parole. Assertiva ma con un tratto obliquo. E imparerete tante nuove paroline inglesi che solo una laureata in sociolinguistica potrebbe usare con quella disinvoltura.

We Are The Rhoads Rolling Stone Carrie Brownstein

Non ci troverete niente di autocelebrativo, ma anzi una onesta e a tratti esilarante demistificazione della vita da musicista. Andare in tour può significare anche ritrovarti in un’amena località slovena a telefonare alla tua ragazza dall’altra parte del mondo, addebitando il costo della chiamata intercontinentale a degli ignari sconosciuti, o farti venire mal di schiena a forza di portarti dietro il tuo amplificatore – da sola – anche quando un critico è impazzito e ha definito il tuo gruppo “best band in America”.

Ogni tanto fa bene all’anima riconoscersi, almeno un po’, nelle storie di qualcun altro. Famiglie disfunzionali? Ansia, depressione, costante senso d’inadeguatezza? Essere outed prima ancora di aver capito qualcosa della propria sessualità? Qui troverete pane per i vostri denti. Di quello crostoso, con poca mollica.

Leggetelo, perché finalmente risponde alle domande “sei mai stata con una groupie?” e “se vi volevano la Warner Bros. e la Matador, perché avete firmato con la indipendente Kill Rock Stars, impedendomi di fatto di conoscervi durante i turbolenti anni dell’adolescenza, quando avrei avuto più bisogno di voi?”

Leggetelo, perché è una vivida istantanea di cosa fossero Olympia e il giro indipendente di quella gloriosa epoca (“It was a world I was desperate to be part of”). Perché ci sono dentro aneddoti irresistibili su Eddie Vedder, Cat Power, Elliott Smith, Jack White. Perché è la storia di una grande amicizia, di quelle che cambiano la vita. Perché ci fa conoscere meglio le dinamiche interne a una grande band, guardandole da dentro. Soprattutto, perché poche volte nella vita mi è capitato di percepire così tanta devota passione per la musica in una sola persona.

All we ever wanted was just to play songs and shows that mattered to people, that mattered to us. Music that summed up the messiness of life, that mitigated that nagging fear of hopelessness, loneliness, and death.

Tutto quello che volevamo era suonare canzoni e fare concerti che significassero qualcosa per la gente, che significassero qualcosa per noi. Musica che riassumesse quel casino che è la vita, che attenuasse la paura opprimente della disperazione, della solitudine e della morte.


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  1. Anna

    20 Marzo

    Meraviglioso, mi hai convinto all’acquisto.
    Purtroppo le Sleater-Kinney sono il gruppo dell’area “Olympia-Seattle-Washington” che ascolto meno. Mea culpa.

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