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L’autodeterminazione totale di Giovanna D...

L’autodeterminazione totale di Giovanna D’Arco

Non si era mai vista una donna di questa età creare tanta difficoltà a quelli che la esaminavano.

Queste parole sono storicamente attribuite a uno dei tanti frati domenicani che presero parte al processo di Giovanna D’Arco, iniziato formalmente il 3 gennaio 1431 (tre giorni prima del diciannovesimo compleanno di Giovanna) e conclusosi il successivo 29 maggio con una condanna al rogo.

Giovanna era stata catturata in battaglia quasi un anno prima, nel maggio del 1430, e successivamente venduta agli inglesi, nemici di Carlo VII di Francia, il re che aveva aiutato perché così le aveva ordinato Dio. L’ultima parte della sua prigionia si svolse a Rouen, città nel nord-ovest della Francia da decenni sotto la dominazione inglese.
Ufficialmente prigioniera di guerra, ben presto Giovanna fu accusata di eresia. Il promotore del processo era il canonico di Beauvais Jean D’Estivet, ma a muovere i fili fu il potente vescovo collaborazionista Pierre Cauchon. In tutto, erano quarantadue gli assessori della Chiesa riunitisi per processare e condannare la ragazza.

Carlo VII, che non sarebbe nemmeno stato re senza le vittorie di Giovanna, non offrì nessun riscatto per lei né fece alcun gesto ufficiale. E pensare che, nelle intenzioni degli accusatori, il processo doveva servire anche a gettare discredito sulla sua incoronazione.

Alla giovanissima Giovanna non venne risparmiato nulla: dopo la lunga prigionia, durante la quale era stata sottoposta a ogni genere di abuso, il 30 maggio 1431, davanti alla folla, venne incatenata a un palo posto su una quantità di legna insolitamente grande, così che non perdesse i sensi per il fumo – come accadeva normalmente – e perché effettivamente bruciasse viva, patendo dolori lancinanti. La sua ultima parola fu “Gesù”.

Illustrazione di Sara Zanello

Illustrazione di Sara Zanello

La storia di Giovanna D’Arco è così celebre da essere stata raccontata da migliaia di saggi e di opere d’arte, e si configura come la più paradossale che una donna abbia dovuto affrontare nella Chiesa. Certo la Chiesa del Medioevo, senza dubbio, odiava le donne e odiò in particolar modo questa donna che, analfabeta e contadina, era stata così influente nel corso degli eventi della guerra dei cent’anni, li aveva in qualche modo pilotati, determinati e, contestualmente, si era anche autodeterminata. Tanta efferatezza era non solo meritata, ma praticamente logica.

Rispetto alle altre sante, Giovanna D’Arco non apparteneva a nessun gruppo costituito, non ebbe alcun padre spirituale, non ebbe mai alcuna ambizione dottrinale e non scrisse alcun libro. Nacque povera nella città di Domrémy, e l’unica istruzione che ricevette fu quella familiare. Davanti agli inquisitori che le chiedevano chi si fosse occupato della sua formazione spirituale, Giovanna rispose: “Mia madre mi ha insegnato il Pater Noster, l’Ave Maria, il Credo. Nessun altro, al di fuori di mia madre, mi ha insegnato la fede”.

Questa fede poteva, dunque, provenire solo da un autentico misticismo (di per sé malvisto dalla Chiesa) incrollabile, per certi versi inattaccabile, di natura intima e confidente. D’altronde, Giovanna D’Arco non si attribuì mai il merito di alcun fatto propriamente miracoloso. Fu la sua condotta, in verità, a essere talmente singolare da risultare prodigiosa, al netto delle “voci” che dichiarava di sentire sin da bambina (e che secondo lei erano dell’Arcangelo Michele e delle sante Caterina e Margherita).

Perfino adesso è difficile credere alla volontà ferrea di una bambina di tredici anni di consacrare la propria vita a Dio facendo voto di castità e di servirlo tramite la guerra e le azioni militari, senza alcuna specifica competenza in merito – anzi, senza alcuna specifica competenza e basta.

Jeanne d'Arc

Ancor più incredibile fu la ferma decisione di Giovanna di indossare abiti maschili. Questa scelta divenne una potente arma nelle mani dei suoi accusatori e in generale si delinea come una questione oltremodo spinosa per la comprensione della storia di Giovanna D’Arco.

Secondo il professor Simon Gaunt, “la sessualità è centrale per la costruzione della santità nel Medioevo”[1]. Sicuramente, lo è stata per la costituzione della santità di Giovanna D’Arco (ovviamente dopo la sua morte). Giovanna era una pucelle, una donna vergine, status da sempre prediletto dalla Chiesa. Ma questo status, da solo, non ne azzerava la sessualità.

La sua decisione di indossare abiti maschili non poteva non rappresentare uno scivolamento di categoria, una rottura della categoria (ovvero la funzione storico-sociale che svolge il travestitismo, secondo la studiosa Marjorie Garber [2]). In più di un’occasione Giovanna disse di non dare grande importanza agli abiti, di averli scelti per mera convenienza pratica (sebbene indossasse abiti maschili non solo in battaglia o durante i viaggi, ma anche durante la sua permanenza alla corte di Carlo VII e durante la prigionia) ma nel corso del processo questo particolare diventerà sempre più rilevante.

Questo dichiarato disinteresse si mal conciliava con la fermissima volontà della ragazza di non abbandonare l’abbigliamento maschile, che anzi sembra delinearsi come un elemento costitutivo della sua identità. Elemento che difese con tutte le sue forze e che fece rientrare anche nel suo privilegiato rapporto con Dio, affermando “Io mi vesto così per ordine di Dio, a Dio piace che lo indossi”.

È da sottolineare che gli accusatori avevano avuto non poche difficoltà a formalizzare accuse specifiche nei confronti di Giovanna sin dall’inizio. Si può dire anzi che per certi versi il processo si era aperto senza che ve ne fossero di circostanziate.

Le risposte di Giovanna in merito alla propria fede apparivano troppo sincere e genuine (tant’è che si decise di condurre la seconda fase del processo a porte chiuse, per evitare imbarazzi nel clero), quindi la faccenda dell’abbigliamento, inizialmente secondaria, venne ingigantita a dismisura. La condottiera mistica e visionaria non solo non accettava la distinzione tra Chiesa trionfante e quella militante, rivendicando un rapporto diretto con Dio, ma non voleva accettare neanche le distinzioni che la Chiesa militante le imponeva. Un vero oltraggio, per gli accusatori, che, infatti, negli atti del processo vollero specificarle che “non è rimasto nulla sulla tua persona che riveli il sesso al quale appartieni, eccetto quello che la natura stessa ti ha conferito”.

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Fu proprio l’abbigliamento a trasformarsi nella condanna a morte di Giovanna. Nonostante la ragazza si fosse appellata al Papa, il che avrebbe dovuto interrompere il processo per sottoporlo all’attenzione del Pontefice, Cauchon ignorò il diritto ecclesiastico (o meglio, lo violò volontariamente), le impose un’abiura e la condannò alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, dove sarebbe stata sorvegliata affinché non indossasse più abiti maschili.

Pochi giorni dopo, i soldati inglesi le rubarono i suoi indumenti femminili e misero nella sua cella solo abiti maschili. Giovanna capitolò: indossò quegli abiti e quando Cauchon si recò da lei affermò di averli messi per sua volontà poiché Dio, tramite le voci, le aveva detto quanto fosse stato “miserabile” il suo tradimento dettato dalla paura della morte. Giovanna non mancò di fare presente, comunque, che a differenza di quanto le era stato promesso, si ritrovava ancora in mezzo a soldati uomini, che avevano tentato di farle violenza, denunciando l’ennesima scorrettezza formale ai suoi danni.

L’abiura veniva così invalidata: la colpevole aveva reiterato il suo peccato e venne condannata come relapsa. Giovanna venne mandata al rogo con una veste bianca, da donna, come ultimo ed estremo esercizio di controllo e potere su di lei da parte degli accusatori.

Nel 1449, diciotto anni dopo, Carlo VII riuscì a entrare a Rouen e a far scappare gli inglesi. Accolto in trionfo, decise di aprire un’inchiesta sul processo di Giovanna. Pochi anni dopo, il papa Callisto III dichiarò illegittimo il tribunale che l’aveva giudicata, annullò il processo e scomunicò postumamente Cauchon.

 


 

Note:

[1] Dal saggio “Straight minds/queer wishes in old french hagiography: la vie de sainte euphrosyne” in “Premodern sexualities” a cura di Louise Fradenburg e Carla Freccero.

[2] “Interessi truccati. Giochi di travestimento e angoscia culturale”, Marjorie Garber, ediz. Cortina Raffaello, 1994.


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  1. elibett

    11 Gennaio

    Grazie mille per l’approfondimento, Giovanna D’Arco è la mia paladina e poi sono nata il 30 maggio, quindi mi ci sento particolarmente legata. Thanks!

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