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Dov’è il confine tra empowerment e oppressione nel...

Dov’è il confine tra empowerment e oppressione nella cura di sé?

Truccarsi è bello, divertente, e potenzialmente molto creativo. Più in generale, avere cura di sé è fondamentale per ricordarsi di avere un corpo e abitarlo in pace ed è, tra le altre cose, un antidoto potente contro la depressione. D’altra parte, però, la cura di sé è un’attività che richiede energia, tempo e, soprattutto, denaro.

Da poco l’ISTAT ha pubblicato una ricerca che mostra che le famiglie, in media, spendono 70 euro al mese per la cura del corpo, la maggior parte dei quali vanno in prodotti e servizi per la cura di corpi femminili. Sul suo canale Youtube, Clio MakeUp ha recentemente affrontato la questione nella sua “Metà Faccia Challenge”, un video interessante in cui mostra che, truccando metà del viso con prodotti molto costosi (per un totale di 487,50 euro) e l’altra metà con prodotti “economici” (per un totale di 85,76 euro) i risultati ottenuti sono praticamente indistinguibili.

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Per quanto la seconda opzione sia sicuramente più abbordabile di una spesa di 487 euro — inavvicinabile, credo, per chiunque non sia figlio di un magnate—, definire 85 euro una “soluzione economica” resta quantomeno ottimista: non è così scontato che tutti possano permettersi di spendere una cifra del genere in trucchi, soprattutto considerando che la disoccupazione giovanile è al 37,9% e che, per esempio, lo stipendio di uno stagista in alcune regioni italiane è di 300 euro (lordi) al mese.

Clio, giustamente, fa notare che spesso il prezzo molto alto di un prodotto non dipende dalla qualità ed è dettato dal brand: ma è decisamente più facile trovare prodotti di scarsa qualità e fabbricati non eticamente venduti a prezzi eccessivi, che trovare prodotti di buona qualità ed etici venduti a prezzi stagista-friendly. Le opzioni per ridurre i costi davvero all’osso (su tutte, il DIY spinto), invece, richiedono di solito un grande investimento in termini di tempo: il che è a sua volta problematico perché il fatto che una persona abbia un reddito basso non implica che abbia molto tempo libero, anzi.

Sarebbe bello avere un lavoro che garantisca uno stipendio e un orario tali che, alzandoci al mattino fresche, riposate e in anticipo, dopo aver fatto una sana colazione a base di fiocchi d’avena e frutti di bosco, e magari un po’ di yoga, ci sia permesso prenderci venti minuti per rilassarci e farci belle davanti allo specchio, prima di iniziare col sorriso la nostra giornata lavorativa. Almeno nella mia esperienza, però, spesso per riuscire a fare tutto è già un miracolo riuscire a dormire un numero decente di ore per notte, e quando suona la sveglia, cronicamente troppo presto, l’ultima cosa che ho voglia di fare è rinunciare a venti preziosi minuti di sonno per truccarmi la faccia.

Il problema, in questi casi, sorge soprattutto quando decidere se rinunciare a dormire per truccarsi non è una libera scelta, ma il trucco viene in qualche misura preteso dal datore di lavoro.

Che i datori di lavoro spesso — più o meno esplicitamente — pretendano un certo tipo di look è una realtà: tempo fa, una donna è stata licenziata da Harrods perché non si truccava; personalmente, mi è capitato di sentire la responsabile di una galleria d’arte in cui ho lavorato, rimproverare a una mia collega di “trascurare il suo aspetto e lasciarsi andare” perché la mia collega, in un giorno di chiusura in cui dovevamo fare il lavoro manuale di smontare una mostra e montare la successiva, si è presentata al lavoro in jeans e scarpe da ginnastica.

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L’episodio più crudele a cui ho assistito è stato quando lavoravo all’estero (in un posto che, tra l’altro, si fregerebbe di essere femminista e anticapitalista):

— Hai la faccia stanca e molto sciupata — ha detto una superiore a una mia amica.

— Eh sì, sto lavorando molto in questo periodo — (eufemismo: per inseguire il suo sogno e nel frattempo arrivare a fine mese, la mia amica faceva due lavori contemporaneamente, lavorando circa 70 ore a settimana).

— Beh, vedi di riposarti o di coprirlo: mica possiamo presentarti così, per il Salone del Libro ci servono facce felici e sorridenti.

Il lavoro di cura per gli altri, e il fatto che questi compiti non retribuiti ricadono nella stragrande maggioranza dei casi sulle donne, è uno dei problemi centrali di cui si occupa l’economia femminista: è invece molto più raro che la self-care (che, beninteso, può riguardare tanto il trucco richiesto alle donne quanto le camicie stirate richieste agli uomini, se se le stirano da soli) venga analizzata in questi stessi termini.

Cosa pensare? Che le occhiaie, in certe situazioni, possano essere uno statement. Un promemoria a chi ci assume con contratti indegni del fatto che non siamo tutti contenti e non va tutto bene, e che siamo flessibili per necessità, non per scelta. Un invito a darci un lavoro pagato dignitosamente e con orari che rispettino i tempi della vita.

Il problema? Che non è mai il dipendente ad avere il coltello dalla parte del manico, e che presentarsi al lavoro senza trucco, tristemente, aumenta il rischio che, senza clamore, il nostro contratto temporaneo non venga rinnovato.


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  1. margherita FERRARI

    6 Aprile

    bellissimo articolo. grazie per aver sollevato questo importante punto.
    la conclusione del tuo pezzo mi ha ricordato un periodo in cui lavoravo in un’agenzia dove lo sfruttamento era una grande normalità. due mesi prima di andarmene mi capitò più di una volta di presentarmi in ufficio senza trucco e di ricevere commenti tra lo stupito e l’infastidito. alla fine la mia frustrazione era tale che iniziai semplicemente a rispondere “questa è la mia vera faccia”, dando ad intendere che non fosse mio compito nascondere le occhiaie con il correttore. ovviamente mi permisi di farlo solo perché sapevo che me ne sarei andata nel giro di poco tempo…

  2. BB

    6 Aprile

    Vorrei il nome della famigerata azienda che si fregia di etichette non degne. Non è per pruderia ma, sapete, se lo conosci lo eviti.

  3. Valentina

    7 Aprile

    Se le occhiaie e la stanchezza fossero lo statement per acuire la sensibilità altrui il mondo sarebbe migliore. Mi piacerebbe che ritrattaste il discorso, avete toccato dei nervi scoperti raramente elaborati. Il primo nell’ottica dell’economia femminista, il costo e la mancanza di tempo per la self care (e perchè no anche le differenze di prezzo dei prodotti di self care in base al genere), il secondo invece è nell’ottica del dover essere self-cared sempre e comunque. La vera faccia può non essere curata a volte. Con alcuni esempio mi spego meglio. Tempo fa il figlio seienne di una mia amica lamentava il fatto che la mamma fosse trascurata rispetto alle altre mamme della scuola. La mia amica per mandare il figlio in quella scuola fa il doppio lavoro, non arriva a prenderlo col capello stirato o con la borsa firmata ma è un’ottima madre stanca e trascurata. Diciamocelo la cura di sè (contemplando anche in questo discorso la salute come benessere) è un discorso di classe sociale: la cura di se non è stagista friendly, non è nemmeno working class friendly. Ma diventa opprimente soprattutto per le donne. Dopo un corso universitario , Genere e lavoro all’UNipd, facemmo una breve ricerca sulle discriminazioni di genere negli annunci di lavoro: il famigerato “Gradita bella presenza” era riservato ad annunci spiccatamente riferiti al sesso femminile (anche se la dicitura finale agli annunci recitava il testo del Dlgs. del 25 gennaio 2010 n. 5). Ancora una volta il controllo dei corpi sembra essere la prima strategia di dominazione maschile, accettata come ben esplicitato nell’articolo anche dalle donne. Le donne devono essere di bella presenza, rincorrere freschezza, giovinezza, fascino, e si insomma bellezza negli ambienti di lavoro, per mantenersi il lavoro e il rinnovo del contratto. THis a man’s world.

  4. barbs

    10 Aprile

    Riflettevo sull’argomento proprio l’altro giorno. Non vedo mai donne alla guida di una supercar, quelle veloci, quelle d’oro. Quelle li. E a braccio ho provato a valutare a quanto ammontano i dollari che tali donne spendono per stagione in borse, scarpe, trucco e parrucco. E non per piacere, ma per dovere/societa’. Diciamo che ora ho una mezza idea di perche’ loro non guidino una macchina cromata con interni in pelle di unicorno.

    Barbs

  5. Valentina

    14 Aprile

    Barbs credo anche per piacere personale, la bellezza è una necessità introiettata ormai nella donna come anche nell’uomo di oggi, come in chiunque. Mi sfugge la connessione tra guidare una supercar e la self care…anchè perchè non è questo che l’articolo sottolineava. SOttolineava il problema rispetto al mondo del lavoro (al salario e al tempo di lavoro) non a scelte che siano più o meno indotte dalla società. Perchè si tratta di bisogni indotti. Devi e vuoi essere curato e di bell’aspetto ovviamente secondo i canoni dettati dalla cultura occidentale wasp, che può essere declinata anche per le persone nere o asitiche ma è sempre e comunque dettata dalla cultura dominante bianca e occidentale. Il resto si può definire anarchicamente queer-care. E raramente è contemplato se non in siti o editoriali come questo. In società è emarginato, nelle università o nella vita sociale pubblica tutto ciò che non è carino deve essere messo sotto il tappeto. Fuori dal front office, dalla scrivania, dal banco del bar, dalla cassa del negozio. Fuori dal contratto, fuori dall’associazione. Fuori insomma

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