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Oltre il Chrismukkah (o: il mio Natale non troppo ...

Oltre il Chrismukkah (o: il mio Natale non troppo ebraico né troppo cristiano)

di Giovanna Bisoni

Non ricordo quando ho scoperto che Babbo Natale non esisteva veramente. Ricordo solo mia madre all’uscita dell’asilo, che mi chiede cosa voglio per Natale: “Così lo dico alla zia Anna, che con Babbo Natale ci parla lei”.

Ecco, non è che gli adulti intorno a me facessero sforzi immani per regalarmi la magia del Natale, anche perché non gliene importava molto: mia madre è ebrea, mio padre ateo militante. Babbo Natale a casa mia non c’è mai arrivato. Nemmeno l’ombra di un presepe, e solo un minuscolo albero di Natale di plastica dopo non so quanti capricci da parte mia, nel 1998.

Chrismukkah poteva funzionare per la famiglia Cohen di Orange County, ma dalle mie parti le cose erano ben diverse. La mia famiglia, materna o paterna che sia, non è particolarmente grande, né particolarmente unita. Mia madre è cresciuta senza cugini di primo grado, mio padre ne ha due. Io di cugini primi ne ho tre, tutti molto più grandi di me; io e mio fratello siamo gli unici ebrei. I miei nonni materni li ho sempre visti settimanalmente, la mia nonna paterna un paio di volte all’anno (a Natale e d’estate): quando sono nata io erano già tutti e tre anziani e/o non particolarmente arzilli, mentre mio nonno paterno era mancato da poco.

Ricordo invece Natali passati in autostrada, guidando verso Milano o verso la montagna. Un giovane impiegato metallaro a un casello stradale, un biglietto con scritto sopra “non sono credente, non fatemi gli auguri”. Ricordo piste da sci semi deserte, famiglie che anche senza la scusa della religione preferivano disertare i pranzi coi parenti (o forse nemmeno loro avevano pranzi da disertare).

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Illustrazione di Francesca Romano

Ricordo Natali passati a casa, ad aspettare che i miei amici si liberassero dai loro interminabili impegni familiari: non c’era mai niente da guardare in TV. Ricordo l’anno in cui mia nonna pensò bene di morire il 23 di Dicembre, con funerale ebraico fissato per il giorno di Santo Stefano.

Ricordo l’anno dopo, quando per la prima e ultima volta partecipai al pranzo di Natale della mia famiglia paterna: era morta da poco anche quella nonna, ma c’erano i figli di mia cugina a cui leggere i libri dei pirati. Ricordo l’anno dopo ancora, quando nell’unico ristorante aperto di Rovereto venni a conoscenza di un segreto di famiglia, uno di quelli che spiegano molte cose.

Ricordo anche un Natale passato a Sydney, con mia madre e mio fratello, sotto piogge torrenziali: finimmo dentro un multisala (affollatissimo) a guardare Les Misérables, e poi a mangiare in un ristorante malesiano. Qualche settimana prima, nel parco di un sobborgo a sud di Melbourne, io e mia madre ci eravamo imbattute in una enorme celebrazione di Hanukkah: c’erano dolci e giostre per i bambini, famigliole, vecchietti, e cibo kashèr in abbondanza.

Questo bizzarro luna park australo-semitico mi sarebbe dovuto risultare simpatico, ma la verità è che sono abituata ad essere in minoranza, e sugli usi e costumi israelitici sono molto selettiva (sinagoga una volta all’anno, molteplici visite ai miei vecchietti preferiti, sentimenti sionistici molto poco sviluppati).

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Hanukkah da piccola la celebravo con la famiglia di mia madre: si andava in sinagoga, si accendeva la Hanukkiah grande (il candelabro a nove braccia) in campo del ghetto, poi si aprivano i regali a casa dei nonni. Per i successivi otto giorni si accendeva una candelina ogni sera. A volte tutto questo accadeva a fine Novembre, a volte a Dicembre, quasi mai durante le vacanze natalizie.

Mia madre le candeline le accende ancora, se sono a casa di solito mi unisco a lei, ma non proprio sempre. Dopo la morte dei miei nonni i rituali ebraici mi provocano spesso nostalgia e tristezza, anche se a volte mi ritrovo in situazioni inaspettate che invece mi rallegrano: un Seder di Pesach anarchico a Glasgow, un Seder di Rosh HaShana improvvisato a Edinburgo.

Alla scuola ebraica (tre ore ogni lunedì pomeriggio, per dieci anni della mia vita, disagio in quantità elevate) ci insegnavano la storia di Hanukkah (Maccabeo, il tempio distrutto dai Romani, l’ampolla miracolosa), le canzoncine di Hanukkah (Dreidel Dreidel?), i dolcetti di Hanukkah. Alla scuola pubblica si mangiava il panettone e si facevano alberi di Natale coi piselli surgelati, destinati all’appartamento milanese di mia nonna paterna.

A casa di mia nonna paterna, al numero 44 di Corso Buenos Aires, non ci andavamo mai il giorno di Natale – l’unica volta che ci presentammo a casa di mio zio durante il pranzo del 25 successe una mezza tragedia. In salotto c’era sempre un piccolo presepe, in ingresso un albero di Natale con sotto i nostri regali.

Casa di mia nonna era il tipico appartamento piccolo borghese anni ‘60, con una stanza piena di oggettistica varia avanzata dalla cartolibreria del mio defunto nonno. Le finestre sul corso tremavano sempre, e io Milano la odiavo: era troppo grigia e rumorosa per i miei gusti di bambina abituata alla vita di periferia campagnola, e alla languida “realtà” veneziana. Quand’ero molto piccola, durante queste visite dormivo nel lettone accanto a mia nonna, che prima di addormentarsi recitava il Padre Nostro e l’Ave Maria: solo adesso mi rendo conto che pregava anche per me, e per la mia povera anima non battezzata.

Crescere al di fuori della maggioranza cattolica in Italia è stata sicuramente un’esperienza bizzarra e, nel mio caso, complicata dalle sfumature presenti nella mia famiglia “mista” e tendente al disfunzionale. Fortunatamente, adesso che sono grande, il disagio che mi assale il giorno di Natale è più fastidioso che altro. L’ultimo Natale, ad esempio, l’ho passato a casa da sola, con un principio di influenza (o forse era la fine). Mi sono comprata un mini panettone al kamut, e l’ho mangiato guardando Real Time nel salotto dei miei. Poi sono andata a farmi un giro. Quest’anno spero solo di avere il mio cane a farmi compagnia.


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