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Privilegi, felicità e dolori della mia testa rasat...

Privilegi, felicità e dolori della mia testa rasata

“Sei sicura?”, mi chiedevano. “Che coraggio che hai!”, dicevano un po’ a se stesse e un po’ alla sottoscritta, quando confermavo di volermi separare dai miei capelli. Al termine di ogni rasatura avvenuta dal parrucchiere, ho ricevuto sempre lo stesso complimento, che non è mai riferito al taglio, quanto alla forma della mia testa. La forma della mia testa, svelata brutalmente, come la conformazione di un terreno dopo un incendio doloso, è segnale di scampato pericolo. Al termine della procedura, mi confermo sempre non orribile. Il mio involucro: presentabile.

Ho quasi trent’anni, il che significa che è passato più di un decennio dalla mia prima rasatura, ispirata da quella freschissima e invidiabile del mio ex delle scuole superiori. Nel mio primo libretto universitario, una foto risalente a quel periodo spinse un professore a chiedermi: “Questo è forse suo cugino?”.
Non ho mai avuto bisogno di coraggio per assumere la forma di questo presunto cugino, perché il suo riflesso, scorto ogni qualvolta mi trovo, sovrappensiero, a passare accanto ad una superficie riflettente, è una forma di conforto.

Dover negoziare in pubblico una lunghezza di capelli in millimetri non è semplice (paradossalmente mi ha richiesto meno sangue freddo ammettere l’enormità del sentimento che ho provato osservando un amico che indossava i miei vestiti, riconoscere a voce alta che quella minigonna viola stava meglio a lui che a me). A distanza di anni, posso approssimare quel sentire come sindrome di Stendhal, invidia, stupore e ammirazione. Ognuno di questi sentimenti è più semplice della prospettiva di una visita dalla parrucchiera o dal barbiere. Un pubblico gentile e solerte, pronto a ricordarmi ciò che inspiegabilmente potrei aver dimenticato, ovvero che esiste una versione più “femminile” del taglio che ho richiesto.

Illustrazione di Benedetta Vialli

Leggo con ansia testi critici, testimonianze e articoli scientifici sperando mi collochino con successo all’interno di un grande schema capace di integrare prospettive costruzioniste, dati biologici, lo smantellamento del genere come dicotomia e arma coloniale, ma anche la storia dello stesso all’interno di un sistema di sistemi che includa prospettive indigene, narrate in prima persona e non dalle voci degli antropologi europei che ho incontrato tante volte nei libri¹. Leggo con ansia perché non so come spiegare il fatto che con i capelli rasati sono più simile a me stessa.

Per anni, i modi in cui ho tenuto a bada la mia disforia e/o incapacità di abitare agilmente il mio corpo sono stati interpretati come ostacoli alla mia vita lavorativa, tanto che, a tratti, li ho sacrificati per tranquillizzare i miei cari.
Per chi non vive direttamente la natura umorale e spesso crudele del mercato del lavoro odierno, la notizia di un colloquio fallito o dell’interruzione di un rapporto di lavoro al limite della legalità può sembrare una incomprensibile ingiustizia. La necessità di trovare una spiegazione lineare, allora, spinge a trovare imperfezioni nel corpo e nell’atteggiamento della candidata/lavoratrice uscente.

In qualità di figlia e nipote, ho ascoltato per anni osservazioni a proposito dei miei outfit, provato a lungo ad apparire “normale”, anche dopo che mi era diventato chiaro che non esistevano scenari in cui questo sforzo avrebbe dato i risultati sperati.
La parte più difficile, a tratti fisicamente insostenibile di questa strategia, è stata il mantenimento di una facciata in cui ero una ragazza dai capelli castani lunghi fino alle spalle.

Dopo essere diventata una lavoratrice autonoma, ho scoperto che posso narrare la legittimità dei miei capelli rasati in funzione dei miei guadagni economici. Ora ho il privilegio e la possibilità di chiudermi in bagno e farmi calmare dal rumore del rasoio elettrico, senza dover scegliere tra la vista di me stessa nel riflesso dello specchio e la possibilità di uscire di casa da sola e tornarci viva o integra nello spirito e nel corpo. Cambiando ambito di lavoro e abbandonando l’ambiente degli uffici, ho scoperto il privilegio di guadagnare del denaro e apparire professionale con relativo sforzo (una camicia stirata, le mie lauree, una certa quantità di fondotinta che ho acquistato senza dover cercare a lungo un tono che fosse simile a quello della mia pelle).

Illustrazione di Benedetta Vialli

“Sei una persona impegnata; immagino che tu non abbia tempo per mantenere dei capelli lunghi.” In famiglia il mio aspetto odierno è stato razionalizzato così. Accolgo affermazioni come questa come esempio di legittimazione della mia competenza. Le mie presunte stranezze, rimaste pressoché intatte dopo l’adolescenza, appaiono ora bilanciate dal fatto che ho dimostrato di sapermi autogestire. La verità, però, è che amo l’aspetto della mia testa, quando è morbida come il velluto. Non c’è traccia di empowerment™ nel mio processo della rasatura, o di scelte dettate da una vita frenetica.

Ciò che non posso fare a meno di considerare, ogni volta che torno a somigliare al mio presunto cugino, è il vantaggio strutturale grazie al quale mi è permesso di sentirmi, almeno in parte, a casa nel mio corpo. L’aspetto “deviante” del mio cranio, se messo in relazione con il modo errato² in cui viene letto il resto del mio corpo (decisamente femminile), è mitigato dal fatto che vivo in un contesto in cui le mie origini, il colore della mia pelle, il mio accento veneto e le mie esperienze scolastiche e lavorative sono considerate lodevoli o normali.
La mia piccola frazione di successo, in senso capitalistico, non è separabile da queste evidenze.

Alla luce di questo, mi rendo conto che la mia esperienza possa costituire una lettura frustrante per chi non ha modo di scegliere come presentarsi senza incorrere in sanzioni e violenze particolarmente gravi. Per questo credo che chiunque di noi detenga il privilegio di potersi presentare almeno in parte secondo i propri desideri, abbia il dovere di dare spazio e adeguato sostegno alle persone visibilmente gender non-conforming, soprattutto se appartenenti a gruppi marginalizzati.

 

Una piccola guida per chi desidera una testa morbida come il velluto

Se vi sentite sufficientemente al sicuro e pensate sia giunto il momento di provare la vostra prima rasatura, vi consiglio di individuare uno spazio e un periodo di tempo separati dalle persone che temete possano non comprendere la vostra scelta. Ad esempio, se studiate fuori sede, tagliatevi i capelli quando non è previsto che torniate presso la dimora parentale per almeno un paio di settimane. Questo stratagemma vi aiuterà a ridurre l’ansia e, eventualmente, anche a far crescere un pochino i vostri capelli.
Se, invece, non disponete di questo lusso, l’opzione meno rapida ma più indolore è quella della rasatura a stadi: tagliatevi i capelli gradualmente sempre più corti, di modo che il vostro aspetto non subisca una variazione troppo drastica.

Se avete un* amic* che possiede un rasoio elettrico e avete il timore di rivolgervi a estranei, perché non chiedere proprio a quella persona di aiutarvi con la vostra prima rasatura? Questo scenario vi eviterebbe di negoziare il taglio dal parrucchiere e ad ottenere comunque un risultato eccellente.

L’ultimo passo è quello della rasatura DIY. Nella mia esperienza, quando ho voglia di liberarmi della mia chioma, non provo alcun timore nei confronti del rasoio e tendo a procedere con calma assoluta. Se voi, invece, avete paura di sbagliare, vi suggerisco di munirvi di un rasoio semi-professionale (se ne trovano di ottimi a partire da 35-40 euro) dotato di pettini solidi. L’unico punto critico, per il quale è bene chiedere supporto esterno, è la rifinitura della nuca, in quanto è assai probabile che vi sfuggano dei capelli.
Se siete alla ricerca di una guida passo passo in italiano, vi consiglio questo articolo per fragili uomini cisgender e etero.


¹Per chi desiderasse approfondire, consiglio la lettura dei libri di b. binaohan, in particolar modo decolonizing trans/gender 101.

²Mi identifico come non-binary.


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