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Riflessioni intorno a “I Love Dick” di Chris Kraus

I believed I was inventing a new genre and it was secret because there was nobody to tell it to.

Credo stessi inventando un nuovo genere, ed era segreto perché non c’era nessuno a cui potessi parlarne.

– Chris Kraus spiega la “Lonely girl phenomenology”

Chris Kraus è considerata una delle voci più sovversive della fiction americana. Ma non è stata sempre capita. Nata nel 1955, dopo essersi trasferita dagli USA alla Nuova Zelanda in tenera età, Kraus decide di tornare a casa, a NYC, all’età di ventun’anni, lasciandosi alle spalle una carriera da giornalista per tuffarsi nel mondo dell’arte newyorkese, con aspirazioni d’attrice. Quando sia il piano A che quello B – diventare una regista importante – falliscono, Chris è già (e solo) la moglie di un prominente docente universitario, Sylvère Lotringer.

Negli anni ’80, il marito aveva fondato Semiotext(e), una casa editrice indipendente che si sarebbe poi distinta come una tra le più influenti presenti sul territorio americano. Semiotext(e) fece conoscere infatti al pubblico statunitense i lavori dei teorici francesi – da Baudrillard a Deleuze a Foucault. Negli anni ’90, Kraus propose di ampliare l’offerta lanciando Native Agents, una sorta di collana che si concentrasse sulle produzioni americane e che pubblicasse testi di autrici. Assorbire le influenze di così tanti filosof*, teoric* e linguist* porterà Kraus a pubblicare nel 1997 la sua prima di nove opere, tra saggi e romanzi, intitolata I Love Dick.

Il libro è descritto dalla stessa autrice come un’estensione della “lonely girl phenomenology”: in sintesi, quella pratica per cui il sentirsi sole e isolate può renderci anche incredibilmente creative; una nuova forma d’arte che racconta la vita, senza avere un vero interlocutore di fronte. Nel testo si mescolano critica sociale e narrativa; le idee della protagonista riguardo al mondo portano avanti la storia, per molta parte autobiografica.

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Il libro è diviso in due parti. Nella prima, Scenes From A Marriage, narrata in terza persona, seguiamo le vicende della vita privata di una coppia etero di mezza età: Chris, moglie e regista fallita, e Sylvère, marito e docente universitario. In seguito ad una cena con un collega di Sylvère, Dick (Hebdige), Chris si convince che tra loro ci sia un feeling particolare, e che Dick voglia iniziare con lei una tresca. Ne mette a parte il marito ed insieme si mettono a scrivere lettere d’amore, reliquia dell’ormai perduta intimità, per il presunto spasimante. Il libro assume quindi la dimensione di una testimonianza, cosa succederebbe se si plasmasse la propria vita attraverso gli strumenti – e cliché – che codificano la forma letteraria del romanzo epistolare?

Nella seconda parte del libro, scritta in prima persona, Kraus smette di considerare Dick una sorta di progetto artistico e inizia a volerlo per davvero. Nelle sue lettere Kraus cita diverse opere di filosofi e antropologi tra cui Chaosophy di Félix Guattari. Il filosofo e psicanalista francese affermava che per comprendere il mondo contemporaneo non si dovesse più considerare la nevrosi indotta dal sesso, come ipotizzava Freud; bensì quella indotta dalla schizofrenia, una forma di risposta alla società capitalista che induce alla nevrosi come massima forma di contatto con la realtà (ovviamente sto molto semplificando). Se diamo per buona questa teoria, allora sarà facile capire perché per intensificare un sentimento sia necessaria un’esperienza: Kraus usa Dick come mezzo per arrivare all’intensificazione dell’esperienza vitale – l’iper reale, rendere la vita stessa una fiction per superare la realtà.

L’opera però è anche una tenace e persistente critica al linguaggio come forma di potere e di manipolazione. Servendosi del romanzo epistolare Chris e Sylvère si pongono da subito come eroi letterari – tanto da arrivare a firmarsi “Bovary”, quella Bovary – non solo per la grandezza della loro impresa, ma anche perché la lettera è (era) uno strumento di comunicazione molto particolare: intimo e privato, ma anche attentamente ponderato e confezionato, che si presta (prestava) perfettamente tanto agli slanci emotivi quanto alle inconfessabili confessioni.

La storia – e vicenda realmente accaduta – quindi supera il ménage à trois sognato e semi-imposto; anzi lo scompone mostrando come anche tra intellettuali le donne siano sempre e comunque solo un oggetto di scambio. Chi ha il potere? perché? come si acquisisce? Il mio genere mi preclude delle possibilità in una maniera talmente subdola che quasi non me ne accorgo? Se non fossi la Moglie di X, esisterei? Sono alcune delle domande implicite poste da Chris a se stessa e al lettore mentre narra delle infinite cene di lavoro a cui ha dovuto accompagnare il marito, e sostenerlo facendo pubbliche relazioni. Ed è proprio grazie all’esito ad una di queste, dove conosce Dick appunto, che Kraus si vede costretta a prendere una parte re-attiva tra i due uomini.

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Chris Kraus (via)

Ovviamente tutte le persone coinvolte sono troppo argute e colte per non riconoscere ciò che sta avvenendo, e non è un caso se il primo a scrivere una “lettera d’amore” è Sylvère, il quale rimane deliberatamente ambiguo riguardo ai suoi sentimenti per Dick: non è mai chiaro se siano autentici o se la forma letteraria travisi il contenuto, rendendo il linguaggio inadeguato e compromettente. A confermare quanto sostenuto sopra è la risposta di Dick, che scrive direttamente all’amico, ignorando appositamente la moglie, la quale aveva finito per portare avanti da sola la corrispondenza.

La coppia arriva persino a scherzare sul fatto che per la struttura imposta dal romanzo ad un certo punto Chris dovrebbe finire o finirà a letto con Dick, consapevole del fatto che la scrittura è un gioco che si autodetermina ed autoalimenta, rimanendo pertanto fine a se stesso. Ciò che rimane di tutto questo però è ben più importante di una trasgressione di coppia: quando Chris e Sylvère decidono di consegnare le lettere (ormai 180 pagine circa), esse hanno acquisito vita propria, che quasi non ha nulla a che vedere con “Dick”, per la stessa ammissione di Kraus (“sei diventato caro diario”).

Nell’utilizzare un destinatario reale ma allo stesso tempo estraneo, Chris permette a se stessa di creare uno spazio dove nutrire e sviluppare la propria voce e la propria visione del mondo per creare un’identità, arrivando a dire di essere finalmente a proprio agio a sostituire la terza persona in favore della prima quando scrive di sé; giustamente usare un generico “lei” le era sempre sembrato il pronome più autentico per andare a rinforzare uno stereotipo di donna dal quale non si era mai sentita rappresentata, e che allo stesso tempo non riusciva più ad alimentare neanche inconsciamente.

Come già accennato sopra, il libro è pieno di spunti e citazioni, quelli attribuiti a “Dick” sono in realtà di Kraus, concetti che svilupperà nei suoi prossimi lavori. Indubbiamente è anche grazie a Dick che Kraus trova il coraggio di mettersi a scrivere, quindi non è sbagliato che sia lui a prendersene il merito, almeno nel libro.

Dick Hebdige provò in ogni modo ad ostacolare l’uscita del libro, prima disconoscendolo e poi intentando causa a Kraus.
Quando uscì, I love Dick vendette poco. Lo sminuirono definendolo un libro “not so much written as secreted”. Solo in tempi recenti, sopratutto con la riedizione inglese di Profile Books del 2015, ha trovato una nuova vita, una nuova copertina e un nuovo pubblico. Il mondo stesso è cambiato, le donne non temono più di parlare di sé o di leggere le confessioni di un’altra.

Ad oggi Kraus ha una cattedra come docente di scrittura presso l’European Graduate School, in Svizzera, è visiting professor presso gli atenei di San Diego, New York e San Francisco; scrive di arte e critica teorica per pubblicazioni accademiche e per svariate riviste, inoltre gira il mondo tendendo conferenze.


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