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Shopping: di chi è, veramente, la responsabilità d’acquisto?

Questo articolo prosegue una riflessione già iniziata qui.


Dal maggior privilegio deriva, o dovrebbe derivare, una maggior responsabilità.

Leggevo l’articolo di Magda dedicato alla povertà e quando sono arrivata a questo passaggio:

…senza contare che significa spesso essere costretti a consumare in modo irresponsabile e a fare scelte dannose per l’ambiente (come finanziare il fast fashion e i grandi inquinatori). Essere poveri significa non poter sempre scegliere, ma essere costretti a qualcosa perché non ci si può permettere un’opzione migliore, ed è frustrante.

Mi sono tornate in mente alcune discussioni fatte nelle scorse settimane in merito al valore politico delle scelte di acquisto. In un mondo che, ci piaccia o no, è in larga parte governato dalle dinamiche di consumo, consumare non significa solo scegliere per sé stessi, ma anche compiere una scelta in rapporto alla comunità. Questa scelta è, a tutti gli effetti, negata a una larga fetta di popolazione.

Un’amica che fatica ad arrivare a fine mese mi ha fatto notare che, per quanto nobile sia la battaglia contro i fast food gestiti dalle multinazionali, per lei mangiare un panino in una di queste catene rappresenta l’unico “lusso” accessibile, anche per regalare un “normale pranzo fuori” ai suoi figli. Come darle torto? E come darle torto quando mi dice che la maglietta (non eco friendly, prodotta in paesi a rischio di sfruttamento…) che costa 5 euro è l’unica maglietta che può comprare per l’estate in arrivo?

La battaglia per l’ambiente, le migliori condizioni di vita dei lavoratori sfruttati (e magari dei nostri commessi) sono un lusso che, pur provvista di coscienza civile, non si può permettere, perché ogni giorno combatte la sua personale battaglia. Questo solleva una fastidiosa questione: chi si deve occupare delle battaglie per l’equità se coloro che in una condizione non equa vivono ogni giorno non le possono sostenere?

La risposta è banale: coloro che hanno un’alternativa. Decidere di comprare una maglietta “un po’ più costosa”, ma che ha alle spalle scelte di produzione e di distribuzione diverse (magari pensando di comprarne una e non due) è un atto politico quotidiano. Decidere di acquistare un prodotto alimentare a filiera corta (si, sono più cari, per quanto possa sembrare assurdo) è un atto politico.

risparmio

Illustrazione di Veronica Malatesta

Decidere di scegliere il “meno, ma di più alta qualità” (su tutti i fronti) e alzare l’asticella è un atto politico. Senza contare che queste scelte potrebbero, alla lunga, influenzare anche le politiche dei grandi marchi di distribuzione: la miglior campagna di persuasione è, in questi casi, quella che passa dal portafoglio degli acquirenti.

A maggior ragione si dovrebbero pretendere politiche di responsabilità sociale da parte di quelle aziende e quei marchi che si definiscono di “alto livello”. Valutare la qualità di un prodotto non solo in base alla sua effettiva resa (in molti casi, se si esaminano beni della stessa categoria, le differenze sono minimali o addirittura inesistenti), ma in base alla responsabilità implicata nel processo di produzione e distribuzione. Si tratta, in fondo, di un valore aggiunto rispetto all’acquisto. Un bene che oltre a rappresentare sé stesso rappresenta una “storia” e una visione del mondo nel cui mercato si va a inserire insomma.

L’avanzare della grande distribuzione in settori che fino a poco tempo fa erano gestiti dal piccolo commercio, ha infatti abbassato i prezzi, ampliato gli orari di apertura e reso molto più semplice il processo di acquisto “d’impulso”, ovvero quel tipo di spesa fatta senza alcuna riflessione preliminare perché “tanto il prodotto è economico” e immediatamente disponibile.

L’acquisto motivato non da una reale esigenza, ma da un momentaneo desiderio, da una moda o da una necessità compensativa esisteva anche 20 anni fa, ma implicava comunque un certo grado di cura e attenzione, perché si stava investendo tempo e denaro in proporzione maggiore a quello che oggi viene investito acquistando una maglietta da 5 euro la domenica pomeriggio in una grande catena. “Ho tempo e alla fine costa solo 5 euro”.

La domanda sul bisogno reale o, per leggerla in modo più “leggero”, sul valore dell’esperienza di acquisto non si pone. Parlo di esperienza di acquisto perché, fra coloro che possono permettersi uno stile di vita “comodo”, il bisogno non è più una categoria dirimente rispetto alle scelte. Non si ha “bisogno” del terzo paio di scarpe e non si ha bisogno di un rossetto di due toni più chiaro. Si ha bisogno di un’esperienza e di una gratificazione: un processo piacevole che porti ad ottenere qualcosa di “bello”.

Questo tipo di esperienza non può, evidentemente, essere sostituita dall’acquisto compulsivo e non ragionato, così come una buona cena preparata con cura non può essere sostituita da un’abbuffata di snack. Sono cose diverse e hanno un diverso impatto sulla persona e sulla comunità, rispetto alla quale chi si può permettere il “lusso” di una scelta ha quindi grandi responsabilità.

Non si tratta dunque di aderire ad una visione pauperistica del quotidiano o a filosofie di vita legate a quella che in senso ampio viene definita come “decrescita felice”, che comportano precise scelte circa l’eliminazione del superfluo: si tratta di investire responsabilmente sul proprio “piacere” e operare scelte ragionate anche in contesti “disimpegnati”.

Una donna che, di fronte a una settimana “no”, decide di chiedersi se davvero una giornata di shopping può migliorare il suo umore (senza stigmatizzare questa attività, che può risultare divertente, se veramente è quello che si desidera fare), una signora che decide di “pensare” al suo acquisto e scegliere non in base alla disponibilità momentanea, ma a una “ricerca” del prodotto che davvero vuole portare a casa, una ragazza che sceglie la filiera corta o che si “documenta” sulla storia di un prodotto per acquistare anche il suo valore aggiunto possono ribaltare i parametri.

In parte li stanno già ribaltando e testimonianza ne sono le massicce campagne “etiche” dei grandi brand, gli stessi che un paio d’anni fa si preoccupavano esclusivamente di mantenere competitivo il prezzo del prodotto e l’attenzione crescente per un marketing (e una comunicazione commerciale) basati su un’effettiva responsabilità sociale d’impresa. Clienti esigenti e sempre più informati hanno imposto anche ai cosiddetti “big” un passaggio dal greenwashing alla reale attenzione per ambiente ed economia sostenibile.

Questo potere e queste responsabilità di acquisto passano in modo assai più largo dal mondo femminile e, in particolare, da quel mondo femminile che può permettersi di scegliere. E deve scegliere, con la testa, anche per sostenere tutti gli altri. Un lusso accessibile, ma forse il più grande che ci si può permettere.


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