L’invidia ai tempi di Facebook

Fin da quando ero piccola, mi sono trovata a considerare l’invidia come uno dei sentimenti peggiori e più vergognosi che si potessero provare. Grazie a qualche rimasuglio di un paio di anni di catechismo e di cartoni Disney sul modello principessa bella brava e buona versus strega malvagia, ho sempre avuto la sensazione che questa fosse la caratteristica-topos delle persone cattive, una cosa che non si può nominare e non si può ammettere, mai, per nessun motivo.

Negli anni però mi sono accorta di avere provato spesso una sorta di ammirazione ambigua per donne che stimo nel momento in cui riescono a raggiungere dei risultati validi in ambiti che mi riguardano.

Seguendo una distinzione ricordata anche da questo interessante studio, si possono notare due tipologie di invidia: benigna e maligna. L’invidia maligna si concretizza nel bisogno di denigrare le persone in questione -“non se lo merita”, “chissà come ha fatto”- ed è inutile dire che non è quella che ci interessa. La benigna invece è qualcosa di più intimo ed autoriferito, è vedere delle altrui conquiste che ci piacciono ed immagazzinarle in modo un po’ sofferente nel cassetto mentale “cose che io non ho”.

Mi capita qualche volta (o forse più di qualche volta) di lasciarmi andare alla mezz’ora di scorrimento dei profili Facebook/Instagram/Twitter/Linkedin di conoscenti pregevoli e di trasformarli in un generico “oh me tapina come sono miserabile” cadendo in una spirale di autocommiserazione selvaggia.

Se anche voi non siete estranei a questa fantastica pratica, benvenuti, non siamo soli. Facendo delle banalissime ricerche su Google, ci si imbatte in una sterminata miriade di articoli, termini, neologismi, teorie intorno all’argomento e pare che ancora una volta uno dei principali colpevoli sia l’Image Crafting. Il meccanismo, come evidenziato per esempio qui, ormai lo conosciamo: tu mi mostri solo il meglio, a sua volta ritoccato, delle tue giornate ed io da brava allocca prendo l’amo e mi convinco che la tua esistenza sia infinitamente più meritevole di essere vissuta della mia.

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Illustrazione di Marta Zanello

Se poi ci aggiungiamo che oltre ad essere frustante per chi vede, uno standard di immagine troppo elevato ed impeccabile diventa una gabbia di cristallo per chi se lo crea, il risultato è che questa cosa non fa bene a nessuno e rende infelici tutti.

A tal proposito, è proprio nei giorni in cui scrivo questo articolo che si è discusso del caso Essena O’Neill . Giovanissima “Instagram celebrity” australiana che con oltre mezzo milione di followers ha tirato fuori un business piuttosto redditizio dalla propria presenza sui social, Essena non ci è più stata dentro: ha cancellato quasi tutte le sue foto, rieditando quelle rimaste con didascalie ben poco fiabesche sui dietro le quinte degli scatti e ha pubblicato una serie di video in cui oltre a sfogarsi invita tutti a non perdere troppo tempo dietro ad un mondo virtuale che l’ha consumata.

La questione meriterebbe una trattazione a sé stante (mi hanno lasciata perplessa i suoi toni tragico/profetici e gli argomenti veganesimo e white privilege buttati un po’ a casaccio nel frullatore del discorso, nda), ma ci basti dire qui che il senso di una affermazione come “social media allowed me to profit off deluding people” risulta molto chiaro per quello che stiamo dicendo. Oltre a questo, ci conferma che l’avere un’immagine di successo sul web ti rende soggetta a sbroccare da un giorno all’altro esattamente come qualsiasi altro mortale.

Non credo che con ciò si debba correre nelle fila della tendenza ad addossare ai social e agli annessi modi di interazione la colpa di tutte la carestie e di tutti i mali del mondo, perché non trovo sia vero, soprattutto in questo specifico caso: quella del giardino più verde del vicino è una questione antica più o meno quanto il mondo.

Il problema, semmai, è che i giardini che possiamo vedere sono milioni e altrettante sono le possibilità del vicino di modificare e filtrare (in tutti i sensi) la sua erba per farcela vedere del colore che vuole. Nel momento in cui non ci sono più limiti ambientali a preservare la nostra beatitudine perché le possibilità di visione sono infinite, siamo noi che dobbiamo imparare l’arte dell’autocontrollo e decidere che c’è qualcosa del panorama che preferiamo ignorare. Soltanto qualcosa, però.

Perché “comparison is the death of joy”, non c’è dubbio, ma è vero anche che fa parte del gioco. Scegliere di non confrontarsi tout court con il resto del mondo significherebbe diventare un’ameba. Se noi in determinate situazioni un senso di inferiorità lo proviamo, è evidente che di fondo c’è qualche mancanza che va colmata e l’invidia non è altro che una spia più o meno inconscia per farcelo notare da sole e come tale non va ignorata. E qui torniamo alla definizione benigna: se riusciamo a non chiuderla in paralisi, può essere usata come un valido stimolo per iniziare cose che stavamo procrastinando o per ravvivare una situazione stantia.

I momenti di autostima bassa continueranno ad esistere ancora e quelli di sconforto pure, ma ci sono senz’altro due linee guida che a me sono servite e che sento di consigliare:

1. Agisci. È probabile che non tutte siamo nate per creare qualcosa di universalmente riconosciuto come straordinario, ma c’è sempre almeno una cosa in cui siamo più brave e che ci riesce meglio della media di persone che conosciamo direttamente. Coltivala, cercando di farne un lavoro nel caso questo sia possibile o altrimenti di renderlo uno spazio tuo, un centimetro di certezza in cui nessuno può entrare. Sapere di avere un’attività qualsiasi in cui riusciamo bene anche nei momenti peggiori resta uno dei metodi di rifugio più impagabili.

2. La vita degli altri è la vita degli altri, la tua è la tua e non è una questione di giudizi di qualità. Per cui, molto semplicemente: fregatene.


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  1. Sara

    22 Gennaio

    Ottimo articolo!
    Aggiungerei però che esiste anche l’altra faccia della medaglia: persone che sfruttano le loro situazioni personali più o meno difficili per attirare l’attenzione su di sè alla ricerca di compassione altrui. Ed anche questo è ‘un modo di stare sul piedistallo’.
    Però anche questa è una gara che non voglio vincere, perciò me ne tiro fuori!

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