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Sotto “La campana di vetro” di Sylvia ...

Sotto “La campana di vetro” di Sylvia Plath

New York, anno 1953. Una ragazza cammina per le strade della città. Ha diciannove anni, vestiti eleganti e viene da Boston. Non c’è la scintillante ironia dello sguardo sui gioielli di Tiffany all’alba, nessun cornetto né guanti fino al gomito. Nessuna scena romantica al MoMA o a Central Park, semmai una cena discreta a Staten Island. E non c’è nessuna metropoli da cartolina, solo l’inizio dell’incubo di una diciannovenne che secondo le aspettative sociali e della sua famiglia sta avendo “the time of her life”, ma in realtà sta vivendo l’inizio di un incubo lungo sei mesi circa. Avere diciannove anni equivale ad avere un mucchio di persone che ti urlano addosso, da ogni direzione, che non hai diritto di lamentarti. Che non conosci ancora le vere sofferenze della vita. Che dovresti goderti ogni momento, ogni attimo, ogni buona occasione. Perché i diciannove anni non tornano più.

Sylvia_Plath

Sylvia Plath a 19 anni.

Nata nel 1932 a Boston, Sylvia Plath era una ragazza che voleva scrivere a tutti i costi, tanto da riuscire a proporre cinquanta diversi testi al magazine Seventeen (un periodico statunitense tuttora in attività) prima di essere pubblicata. Nel 1953 un treno la portò da Wellesley nel Massachusetts a New York, diretta al suo tirocinio come guest editor da Mademoiselle, una rivista per giovani donne che aveva una tiratura di 500.000 copie. Negli anni a venire le sue poesie la resero molto più famosa dei racconti che aveva scritto da più giovane, ma l’unico suo romanzo (semi-autobiografico) risale al 1963. Si intitola The Bell Jar (in italiano La campana di vetro) e fu pubblicato con lo pseudonimo di Victoria Lucas un mese prima dell’11 febbraio, quando la scrittrice preparò due fette di pane e burro e due tazze di latte per i bambini prima di sigillare porte e finestre e infilare la testa nel forno a gas.

Come spesso succede con le icone della cultura popolare la cui morte precoce ha regalato eterna giovinezza, si dà spesso più rilievo alla loro scomparsa che non alla loro effettiva produzione artistica. A parte Rory Gilmore, si intende, che leggeva Sylvia Plath molto prima di me.

Rori Gilmore

Una scena tratta da “Gilmore Girls”.

The Bell Jar è un romanzo che racconta la storia di Esther Greenwood, che è in tutto e per tutto una versione romanzata (ma non troppo) di Sylvia Plath e di alcuni mesi della sua vita. Di come i suoi diciannove anni siano strettamente collegati a tutto ciò che è venuto dopo. È un romanzo scritto in prima persona che spiega in modo terribilmente sincero cosa può voler dire avere diciannove anni nel 1953 e voler avere tutto dalla vita, sentendosi costretta a dover scegliere. Dover scegliere tra la scrittura, il ruolo di madre e moglie, una vita avventurosa in Europa senza un partner fisso. Queste sono solo alcune delle fantasie della giovane Esther, che si sente al centro di un albero di fichi e, in preda al panico su quale frutto cogliere dal ramo, ha paura che nel frattempo avvizziscano tutti e diventino egualmente immangiabili.

La sua amica Doreen al tirocinio non comprende il suo disagio, sua madre non lo capisce, il ragazzo che potrebbe diventare il suo futuro marito non capisce. E tutto va a rotoli, non appena il tirocinio finisce e la vita torna a scorrere lentissima dietro alle tende della casa materna nella provincia di Boston. Esther si sente in trappola e sente di non avere gli strumenti necessari per affrontare il mondo in cui tutti a forza la vorrebbero sbattere. Non vuole scegliere quale fico mangiare. Non vuole far contento nessuno, nemmeno se stessa, incapace di prendere decisioni che vadano oltre l’acquisto di un impermeabile che non protegge dall’acqua (anche quando la commessa ha fermamente consigliato di non acquistarlo).

Avevo chiesto alla commessa “Protegge dall’acqua?”. E lei mi aveva detto, “Nessun impermeabile ti protegge davvero dall’acqua. È a prova di doccia”. E quando chiesi cosa significava, mi suggerì di comprare un ombrello.

Attraverso Esther, Sylvia Plath racconta con uno stile ironico e asciutto tutti i tentativi goffi di suicidio della protagonista, che corrispondono ai suoi, seguiti da una permanenza lunga mesi in vari reparti e istituti psichiatrici, che passa attraverso sedute di elettroshock, competizione tra chi è più malato e varie altre vicende che vanno dall’assurdo al grottesco, dal comico al tragico.

L’autrice ha il merito di essere riuscita a raccontare, in un unico romanzo, tantissimi temi importanti per la vita di molte giovani donne: la fine dell’adolescenza, il rapporto con la madre, il sesso, la verginità, la prima volta, la pillola anticoncezionale, la depressione, il suicidio, la malattia mentale, l’amicizia, la moda, l’invidia. Lo stigma infinito che avvolge la malattia mentale era ancora molto forte al momento della sua pubblicazione, quando l’autrice non riuscì a uscire allo scoperto col suo vero nome e preferì uno pseudonimo. Vale comunque la pena di immergersi nelle vicende della giovane Esther, così legate al periodo storico in cui sono state scritte eppure terribilmente attuali, universali, comuni.

Illustrazione di Anna Masini

Illustrazione di Anna Masini

Cos’è “la campana di vetro”? Quando nel libro la ricca Mrs. Guinea si offre di coprire le spese sanitarie di Esther necessarie per trasferirla in una struttura psichiatrica migliore, la protagonista spiega:

So che avrei dovuto essere grata nei confronti di Mrs. Guinea, il problema è che non riuscivo a sentire niente. Se mi avesse dato un biglietto per l’Europa o mi avesse regalato una crociera intorno al mondo, non avrebbe fatto alcuna differenza per me, perché dovunque io mi trovi – seduta sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o Bangkok -, sarei sotto la stessa campana di vetro, a soffocare nella mia stessa aria acida.
[…]
L’aria nella campana di vetro mi circondava e non potevo muovermi.

E ancora, in un altro momento chiave del libro:

Mi disse: “Comportati come se tutto questo fosse stato solo un brutto sogno”. Un brutto sogno. Per la persona che si trova nella campana di vetro, spenta e interrotta come un bambino morto, il mondo stesso era un brutto sogno.

Sylvia sapeva che la campana di vetro avrebbe potuto tornare in qualsiasi momento. Purtroppo è tornata, ma non ha impedito a questa perla letteraria di venire al mondo e aiutarci con le sue intelligenti parole.


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  1. Laura a.

    17 Ottobre

    Bellissimo articolo, che rende giustizia ad un’opera sottovalutata da molti. La lessia 17 anni, e “la mia vita non fu più la stessa” (con grande preoccupazione di mia madre per tanto entusiasmo…). Mi procurai la versione in lingua originale, e giacché studiavo il tedesco, anche una in tedesco…A proposito: la traduzione originale dell’oscar mondadori, a cura di Daria Menicanti, la trovo decisamente superiore a quella più recente.

  2. Erica

    17 Ottobre

    Premessa: ti voglio bene Sylvia.
    Ho letto Campana di vetro grazie a un club del libro provinciale di cui faccio parte da qualche anno, tutto quello che gli altri partecipanti hanno saputo sottolineare è stata la tristezza della fine, mentre il centro sta proprio nella perdizione che nasce dal doversi inserire a forza e senza potersi fare le giuste domande (sarò vera a me stessa?) nei percorsi che qualcuno o qualcosa ti dice siano giusti.
    Ve lo dice una che sta lavorando il sabato sera, decisamente fuori orario ufficiale, e che preferisce non chiedersi perché lo fa.

    Get your head out of the oven
    https://www.youtube.com/watch?v=Xf0EJfFgr9k

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